È dedicata a Ruth Beckermann (Vienna, 1952) la nuova retrospettiva di FILMMAKER dal titolo Ruth Beckermann, l’immagine della parola, realizzata con il sostegno del Forum Austriaco di Cultura. Da oltre quarant’anni punto di riferimento dell’indagine sul cinema documentario e più in generale “di ricerca”, Filmmaker ha scelto di omaggiare nell’edizione 2022 (dal 18 al 27 novembre a Milano, Cinema Arlecchino) una delle voci più autorevoli del cinema austriaco.
Dopo Milano, grazie alla collaborazione con Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia e Sicilia Queer filmfest, Ruth Beckermann sarà anche a Roma – dal 21 al 23 novembre al Cinema Troisi – e a Palermo (il 1° e il 2 dicembre al Cinema Vittorio De Seta), protagonista di due masterclass e per accompagnare la proiezione dei suoi tre film più recenti: Die Geträumten (2016), in cui sperimenta una forma “ibrida” di finzione nella messinscena della relazione tra Paul Celan e Ingeborg Bachmann; Waldheims Waltzer (2017), candidato dall’Austria all’Oscar e forse anche per questo il suo film più internazionalmente conosciuto, e Mutzenbacher (2022), vincitore della sezione Encounters all’ultima Berlinale e presentato in anteprima italiana.
Il CSC – Scuola Nazionale di Cinema ospita una masterclass della regista rivolta agli allievi e aperta al pubblico. L’incontro, condotto dal regista e produttore Carlo Hintermann, si terrà il 24 novembre alle ore 11.00 nell’Aula magna del Centro Sperimentale di Cinematografia (via Tuscolana 1524, Roma). L’accesso per il pubblico è gratuito previa prenotazione all’indirizzo email prenotazione@fondazionecsc.it. Possibilità di prenotazione fino a esaurimento posti.
PROGRAMMA
Roma / Cinema Troisi
Prenotazioni
Lunedì 21 novembre, ore 21.00
Mutzenbacher
Martedì 22 novembre, ore 20.40
Waldheim Walz
Mercoledì 23 novembre, ore 18.45
The Dreamed Ones
MUTZENBACHER (Austria, 2022, 4k, colore, 100’)
Quando apparve nella Vienna all’inizio del secolo scorso – era il 1906 – Josephine Muztenbacher ebbe l’effetto di una deflagrazione. Il memoir di una prostituta viennese, giunta a quella maturità degli anni in cui si può guardare indietro, raccontava infatti di una bambina consapevole sin da piccolissima del proprio desiderio sessuale e di quello dei maschi che la circondavano e che lei cerca di provocare costantemente. Il padre, il vicino di casa, gli altri bambini, l’ufficiale, l’aristocratico: ogni uomo, giovane o meno giovane diviene nella vita di Josephine una variazione intorno all’erotismo e a quei tabù che la morale collettiva vieta persino di sussurrare. Spavalda e soprattutto mai vittima nella propria narrazione, Josephine esibisce fieramente la coscienza del proprio corpo, che deve essere sempre pagato e mai donato, per lei quegli uomini sono geometrie astratte e interscambiabili, pericolosi solo se una se ne innamora.
Il romanzo era stato censurato rimanendo la lettura proibita per generazioni di ragazze e ragazzi austriaci. Uscito in forma anonima venne poi attribuito a Felix Salten, lo scrittore austriaco autore di quel Bambi che ispirò il film di Disney, diventando nel tempo un classico della letteratura. Ruth Beckermann, anche lei lettrice “clandestina” del libro scovato tra gli scaffali dei genitori, per la sua messinscena sceglie un dispositivo che ne rispetta le origini: saranno solo uomini a leggere il testo alla prima persona di una donna proiezione però di un autore maschile, in una triangolazione in cui la sola presenza femminile è quella della regista – anche in scena seppure solo come voce che dispone l’azione.
Il luogo è una vecchia fabbrica ormai chiusa a Vienna, i protagonisti – scelti con un annuncio sul giornale che chiedeva per il casting uomini fra i 16 e i 99 anni – sono seduti su un divano rosa dorato un po’ usurato dal tempo che è stato trovato lì, la cui presenza diviene molto più significante di una pura casualità. E del resto: non aveva scritto Freud negli stessi anni di Salten i suoi Tre saggi sulla sessualità?
In coppia o da soli, davanti alla regista, gli uomini leggono passaggi del testo confrontandosi con un erotismo che è fantasmagorico e come tale libero da ogni costrizione. Qualcuno mostra imbarazzo, altri hanno una maggiore scioltezza, insieme danno voce allo “scabroso” universo di Josephine che nel presente diviene lo spunto per parlare di sé, del proprio rapporto con il femminile, con la sessualità, col desiderio. Su quel divano a differenza di quanto si pensa non si sottraggono a mettersi in gioco. C’è chi confida la diffidenza verso le nuove norme sociali del Me Too – che nemmeno si può più corteggiare una ragazza – e chi invece non avrebbe mai accettato la seduzione di Jospehine perché troppo timido. Uno non riesce a leggere, e chiede alla regista di farlo: «con la sua voce», ovvero con la voce di una donna . Ruth Beckermann “provoca”, dissemina piste, artefice con ironia di uno spaesamento del maschile e della sua rappresentazione. Lo spazio della parola le permette una libertà assoluta, nulla è “rappresentato” ma viene invece evocato, suggerito proprio come sulle pagine scritte mantenendo quell’ambiguità che oppone la paura del testo e la curiosità verso di esso.
«Il film vuole essere sovversivo in un momento come quello attuale caratterizzato da un nuovo moralismo, dal politicamente corretto, da regole linguistiche. Mentre tutto sta diventando sfuocato mi sembrava importante stabilire le differenze tra la realtà e la finzione; nella fantasia tutto dovrebbe essere permesso». E in quella “dark side” della Vienna fin de siècle ritroviamo così il nostro contemporaneo. (Cristina Piccino)
WALDHEIM WALZ (Austria, 2018, HD, 93’)
«Guardando i materiali che ho girato decenni fa sono rimasta scioccata. Avevo davvero potuto dimenticare come le emozioni vengono manipolate dai populisti?».
1986, Ruth Beckermann è in piazza a Vienna insieme agli attivisti che contestano la candidatura alla presidenza di Kurt Waldheim e documenta gli eventi di quei giorni. «No a Waldheim, no a Waldheim» grida la folla. Cosa era accaduto? Su che era inciampata la corsa di una figura così prestigiosa nella vita politica austriaca e internazionale, ministro degli Esteri e Segretario generale delle Nazioni unite per due mandati?
Il settimanale austriaco «Profil» aveva denunciato i legami di Waldheim con il nazismo fino allora attentamente omessi. A queste rivelazioni si erano aggiunte nuove accuse avanzate dal World Jewish Congress (Congresso Mondiale ebraico, ndr) che grazie a un’inchiesta portata avanti con i giornalisti del «New York Times» era risalito alla sua militanza attiva nelle SA, i reparti paramilitari del partito nazista. E alla sua presenza sul fronte in Jugoslavia, soprattutto in Grecia, a Salonicco, da dove partivano le deportazioni verso Auschwitz. Nella sua biografia ufficiale però Waldheim – che ovviamente negava tutto – aveva raccontato di essere stato ferito nel ’42 e da allora di non avere mai più combattuto.
L’Austria si divide tra chi rifiuta la sua candidatura e i sostenitori della sua innocenza in uno scontro che rivela le crepe nella sua narrazione rispetto al nazismo. Quell’immagine di un Paese vittima innocente dei nazisti si sgretola nel sostegno a Waldheim che dichiara il negazionismo della classe politica, l’antisemitismo diffuso – specie negli attacchi a chi lo critica – il patriottismo, tutti elementi che permetteranno la sua elezione.
Ma come è stato possibile che nessuno si fosse mai accorto del passato di Waldheim? E se questo per l’Austria coincideva con una pratica di rimozione, che dire rispetto alla comunità internazionale? Kohl in Germania si era schierato con lui e così Reagan – anche se poi l’America vieterà l’ingresso a Waldheim presidente.
A partire dagli archivi personali, a cui si aggiungono materiali televisivi internazionali, Beckermann – che è anche voce narrante – costruisce una riflessione sull’identità collettiva di una nazione, l’Austria, che ha rimosso le proprie responsabilità. E nell’alternanza di “menzogna” e “verità” interroga al tempo stesso la storia e la politica internazionali proseguendo quel suo lavoro di ricerca nello spazio della memoria e tra le sue amnesie che non ha mai smesso di illuminare. (Cristina Piccino)
THE DREAMED ONES (Austria, 2016, HD, 89’)
Un’attrice e un attore si incontrano in uno studio di registrazione a Vienna per leggere le lettere di Ingeborg Bachmann e Paul Celan, una corrispondenza quella fra i due scrittori che attraversa il loro legame d’amore intermittente e insieme inesauribile, che li unirà dal primo incontro, quando sono poco più che ventenni, fino alla morte di Celan nel 1971 a Parigi. «Dovrei venire, guardarti, tirarti fuori, baciarti e sostenerti per non farti scivolare via. Ti prego credimi, un giorno verrò, e ti porterò con me» – scrivono incapaci di lasciarsi così come di stare vicini. Si erano conosciuti nel 1948, Celan aveva dedicato a Bachmann una poesia, In Ägypten, intorno a loro l’Europa nel dopoguerra. Lui viene da una famiglia ebraica di Cernovitz sterminata nei campi di concentramento, lei è austriaca, il padre si era schierato sin dalla prima ora col nazismo, cresciuta in Carinzia ha vissuto poco la violenza del conflitto. Nella loro scrittura epistolare e poetica l’amore e l’amicizia sono anche dissidi, discussioni, le crisi sempre più frequenti di Celan, i dubbi che fanno dire a Bachmann: «Siamo noi solo quelli sognati?».
La “differenza irriducibile” dei due malgrado il tempo del cuore – «Ingeborg, una piccola brocca d’azzurro» scriveva Celan in una dedica – riflette anche modi diversi di relazionarsi alla scrittura e alla creazione: la ricerca della parola per incontrarsi, il dolore che l’accompagna, la necessità del silenzio di fronte a sentimenti e stati d’animo così contraddittori.
A partire da qui Ruth Beckermann realizza un “film parlato” che mette al centro la lingua dei due poeti rendendo la parola esperienza di un mondo. I protagonisti – Anja Plaschg, musicista e cantante conosciuta come Soap and Skin, e Laurence Rupp, attore del Burgertheater di Vienna – sono giovani, si mostrano felici di essere lì. Conversano, fumano, parlano dei loro tatuaggi, di musica, sembrano quasi corteggiarsi. È forse il testo che leggono a influenzarli? O invece è il sentimento che provano a fargli trovare il giusto respiro per far vibrare uno dei carteggi più struggenti del ‘900? – in Italia uscito come Troviamo le parole. Lettere 1948-1973, Nottetempo.
Nello spazio della parola letteraria – in cui gli interpreti non “pretendono” di essere Bachmann e Celan – l’autrice sperimenta la narrazione di un amore: gli intrecci possibili di un desiderio, la malinconia di una perdita, i tumulti e lo smarrimento, la possibilità di creare uno spazio di incontro in cui riconoscersi. (Cristina Piccino)
RUTH BECKERMANN
Quando comincia a girare nelle strade di Vienna documentando le proteste delle giovani generazioni contro l’elezione di Waldheim alla presidenza, Ruth Beckermann (Vienna, 1952) è tra i manifestanti, ha già un’esperienza di giornalista in giro per il mondo ma “filmare” appare in quel momento un gesto necessario, il solo in grado di rispondere al desiderio che attraversa l’intera sua opera, quello cioè di confrontarsi col proprio tempo, trovarne la voce, il respiro, illuminarne le contraddizioni, i conflitti, le zone più complesse. Quei materiali torneranno in forma di archivio in Waldheims Waltzer il suo film che l’Austria ha candidato agli Oscar nel 2019 nella categoria del miglior film internazionale a conferma dello statuto centrale dell’autrice all’interno del cinema austriaco e mondiale.
Questa spinta a un confronto con la realtà fondato su un rapporto costante tra dimensione “privata” e immagine collettiva, è presente nell’autrice sin dai suoi primi lavori nella Vienna del 1977 quando per un collettivo video indipendente aveva documentato le battaglie in un centro culturale della città. Il film, Arena besetzt (1977) è diventato nel suo sguardo il racconto di un’utopia e della sua fine ma anche un “saggio” sul senso del cinema politico. Ed è questa una delle cifre che caratterizza la generazione del “Nuovo cinema austriaco” nelle sue differenze, e che qui trova il punto di incontro con il bagaglio delle avanguardie e con il loro lavoro di reinvenzione formale del racconto cinematografico; autori e autrici, da Kurt Kren a Friedl Vom Groeller, da Ulrich Seidl a Peter Tcherkassky, tutti invitati più volte con i loro film a Filmmaker.
Ma se questo “lavoro di memoria” è per molti autori soprattutto cinematografico, nella poetica di Beckermann si fa punto di partenza narrativo in una intersezione tra presente e passato, documentario e finzione, che esplora i nodi della Storia per dare voce a quelli della nostra epoca. Ogni opera interroga le questioni di identità personale e collettiva che passano per la relazione della società europea e americana con l’ebraismo della diaspora, dopo la seconda guerra mondiale fino oggi, per la narrazione della donna, per le inquietudini del nostro pianeta cercando, ancora una volta, di esprimere il sentimento del mondo in cui l’autrice vive, e un linguaggio cinematografico sempre inventivo, vivo, che vuole mettere alla prova il proprio mezzo a ogni nuova scommessa.
Da un film come Those Who Go, Those Who Stay (2013) quasi un saggio sulle migrazioni volontarie e involontarie attraverso l’Europa al magnifico Die Geträumten (2016) in cui – sperimenta una forma “ibrida” di finzione nella messinscena della relazione tra Paul Celan e Ingeborg Bachmann, la sua costruzione di memoria vive tra sfaccettature di emozioni e la contemporaneità. Diventa road movie in American Passage (2011), girato a Harlem dopo la crisi finanziaria del 2008 e l’elezione di Obama primo presidente african-american della storia, e incursione nel colonialismo alla ricerca dei legami tra Oriente e Occidente (Ein flüchtiger Zug nach dem Orient, 1999) e tra Europa e Africa (nel progetto di The Emperor, in coproduzione italiana con Citrullo international e RaiCinema e con contributo alla coproduzione della Direzione generale Cinema del MIC, oggi in pre-produzione). Straordinaria è la sua ricerca continua della forma documentaria “giusta”: la messa in scena della parola, a partire da un piccolo classico della letteratura libertina come Mutzenbacher di Felix Salten si trasforma in una originalissima, divertente e sottilmente controcorrente interrogazione della mascolinità nel confronto con un personaggio femminile tuttora imprendibile. Mutzenbacher ha esordito nel febbraio 2022 alla Berlinale, dove ha vinto il premio nella sezione Encounters confermando la ca