Si trovava in quella località perché stava girando il nuovo film The Other Sea, coproduzione italiana, greca e turca, interpretato dal nostro Toni Servillo. Theo Angelopoulos si è spento a 76 anni, uno dei più provocatori e intransigenti maestri del cinema europeo uscito da quel grande movimento di nouvelles vagues della fine degli anni Sessanta. Nato ad Atene nel 1935, laureatosi in legge, nel 1962 si trasferisce a Parigi per studiare cinema. A 33 anni dirige il cortometraggio La trasmissione (1968) che ottiene buoni consensi, mentre il suo lungometraggio d'esordio, Ricostruzione di un delitto, ottiene la menzione speciale al Festival di Berlino. Ma è il film che è riuscito a stregare tutti è stato La recita (1975), opera di quattro ore, in cui l'autore raccontò la storia della Grecia dagli anni Trenta ai Settanta («Solo dopo, riflettendo e discutendo (che discussioni all'uscita), avevamo capito che quello a cui Angelopoulos era riuscito a dare forma era la memoria collettiva di un Paese, non tanto lo storia di questo o di quel protagonista. Eravamo stati i primi spettatori di un capolavoro epocale, di una delle vette del cinema contemporaneo, un'occasione che ai festival accade una volta ogni venti o trent'anni», ricorda Mereghetti, tra gli spettatori della prima proiezione a Cannes). Altri suoi film che resteranno memorabili sono Paesaggio nella nebbia (1988, Leone d'argento alla Mostra di Venezia), Lo sguardo di Ulisse (1995, Gran Premio della Giuria a Cannes) e L'eternità è un giorno (1998, Palma d'oro a Cannes). Senza scordare Il passo sospeso della cicogna (1991, con Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau) e La polvere del tempo (2008, con Willem Dafoe, Bruno Ganz e Michel Piccoli). Nella sua filmografia l'autore Angelopoulos non è mai sceso a compromessi, mantenendo quell'etica dello sguardo, ovvero piani sequenza atti a registrare le realtà interiori della Storia. Sull'ultimo film che stava girando ha dichiarato: «Il XX secolo ha creato una speranza di cambiamento, ma adesso il sogno è svanito e ci troviamo a vivere in un vuoto che le nuove generazioni dovranno riempire di contenuti».
“La Cineteca Nazionale rende omaggio a Theo Angelopoulos
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ore 17.00
L'eternità e un giorno (1998)
Regia: Theo Angelopoulos; soggetto: dal romanzo L'exil et le royaume di Albert Camus; sceneggiatura: T. Angelopoulos, Petros Markaris, Tonino Guerra; fotografia: Andréas Sinanos, Yorgos Arvanitis; scenografia: Giorgios Patsos, Giorgios Ziakas; costumi: G. Patsos; musica: Eleni Karaindrou; montaggio: Yannis Tsitsopoulos; interpreti: Bruno Ganz, Isabelle Renauld, Fabrizio Bentivoglio, Despina Bebedelli, Achileas Skevis; origine: Grecia/Francia/Italia; produzione: Greek Film Center; durata: 129'
Al confine tra la Grecia e i Balcani, l'odissea esistenziale nelle nebbie e nei simboli di un intellettuale di fine secolo inghiottito dalla Storia e dal proprio egoismo nobilitato dall'arte. «L'eternità e un giorno apre il tempo dei bilanci esistenziali, si preoccupa di chiudere la maggior parte dei discorsi lasciati aperti (forse perché manca così poco alla fine - alla fine della vita biologica, alle propaggini estreme dell'opera conclusa... banalmente, alla fine di un secolo di cinema, del secolo del cinema). E allora arrivano un volto (Bruno Ganz) ed un personaggio (Alexandros) con la funzione di riassumere, tirare le fila, fare una dopo l'altra le cose giuste: ricordare bene, agire bene. Di fronte alla morte imminente, Alexandros reagisce ripiegando sul ricordo di ciò che è stato, e insieme avverte come necessario un intervento sul presente, per dimostrare che il presente gli appartiene. Delle convenzioni linguistiche atte a significare la vicenda in corso e la vicenda passata, Angelopoulos non ne utilizza alcuna: le immagini, che siano di memoria o di percezione diretta, hanno la medesima evidenza, come già insegnava il Gauguin di Tahiti. Soprattutto poi se il passato è dominato da spettri inestinguibili che sono la Poesia, o l'Ideologia. […]Non è mai stata un'arte in superficie, quella di Angelopoulos; il piano-sequenza è lo strumento che indaga nella profondità del racconto, è la vera misura della realtà (non della realtà delle cose, come argomentava Bazin, ma della realtà autonoma del racconto, come vuole la metacritica). Il presente, poi, è anzitutto lo scenario da modificare (seppure in extremis), il contesto su cui intervenire; un attitudine all'attivismo, questa di Angelopoulos, che ha le radici in una cultura marxista ben lontana dall'essere liquidata, oltrepassata. Si è portati a pensare che le cose non dette non siano realmente accadute, nota Javier Marìas nel romanzo Un cuore così bianco; che ne è allora delle cose della memoria, cui Theo Angelopoulos dedica L'eternità e ungiorno, altissimo canto d'un condannato a morte?» (Luca Bandirali).
ore 19.15
Lo sguardo di Ulisse (1995)
Regia: Theo Angelopulos; soggetto: T. Angelopulos; sceneggiatura: Tonino Guerra, Petros Markaris, T. Angelopulos; fotografia: Yorgos Arvanitis; scenografia: Miodrag Nikolic, Giorgos Patsas, Yorgos Patsas; costumi: Giorgos Ziakas; musica: Eleni Karaindrou; montaggio: Yannis Tsitsopoulos; interpreti: Harvey Keitel, Erland Josephson, Maia Morgenstern, Thanassis Vengos, Yorgos Michalopulos, Dora Volonaki; origine: Grecia/Italia/Francia/Germania; produzione: Angelopulos Productions, Paradis Film, Le General d'Images, Basic Cinematografica; durata: 178'
«A. (Keitel), regista greco, torna in patria per la prima di un suo film e per cercare tre bobine di un negativo (Le tessitrici) impressionato nel 1905 dai fratelli Maniakas, pionieri del cinema, girovaghi nei Balcani. Il suo viaggio di ricerca attraversa Albania, Macedonia, Bulgaria, Romania e approda alla straziata Sarajevo dove l'attende un anziano cinetecario (Josephson). (La parte era destinata a Gian Maria Volonté, morto dopo pochi giorni di riprese). Capolavoro imperfetto? Nella malinconica liturgia solenne del suo cinema di riflessione sulla Storia le pagine opache non mancano, ma le pagine riuscite sono di alto livello, e più numerose. Scritto con Tonino Guerra e Petros Markartis, il 10° film di T. Angelopulos conferma che questo regista isolato, peculiare e inimitabile è uno dei pochi cui si può attribuire la qualifica di "europeo": il suo è "un invito alla ragione (non alla ragion di Stato), di cui abbiamo bisogno perché il relativo sonno non generi altri goyeschi mostri" (L. Pellizzari). Non c'è ritorno a Itaca per il suo Ulisse: l'epica sfocia in tragedia. Lo sguardo innocente dei pionieri del cinema è perduto per sempre. Gran Premio della Giuria a Cannes 1995 quando la Palma d'oro toccò a Underground di Kusturica, come dire l'Odissea e l'Iliade di questa fine di secolo» (Morandini).
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