Il neorealismo amaro di Giuseppe De Santis
23 Febbraio 2012 - 28 Febbraio 2012
Un apprezzato professionista di sicuro avvenire non è solamente il titolo dell’ultimo film diretto da Giuseppe De Santis. Ma forse è col senno di poi, e cioè rileggendo le varie vicende della sua biofilmografia, anche un’ironica quanto amara riflessione sul suo essere uomo di cinema in un mondo dello spettacolo a lui sempre più alieno. È come se De Santis avesse avuto, da una parte, coscienza di sé, delle proprie capacità di professionista del cinema e, dall’altra, con lucida e disincantata ironia vedesse la propria carriera di regista tutt’altro che sicura. Del resto, basta leggere le date della sua filmografia per capire le reali difficoltà per un maestro del cinema italiano di realizzare film: ben otto anni separano il suo ultimo lungometraggio da Italiani brava gente (1964), e, come scrive giustamente Piera Patat nel volume curato da Sergio Toffetti Rosso fuoco. Il cinema di Giuseppe De Santis, «l’altro film degli anni ’60 è La garçonnière (1960), finanziato da un produttore regionale, il napoletano Roberto Amoroso. E per fare l’ultimo film degli anni ’50, La strada lunga un anno, aveva dovuto andare in Jugoslavia». Non è un caso quindi che il primo cartello dei titoli di testa del film Un apprezzato professionista di sicuro avvenire reciti «”Un film di Giuseppe De Santis”, l’ultimo “direttore artistico Giuseppe De Santis”. La prima formula, che ha un significato particolare, in quanto indica che il regista è il responsabile principale, l'”autore” di un film, si è venuta affermando nel corso degli anni ’30 con il crescere dell’importanza della nozione di regista all’interno di una situazione di lavoro collettivo».
“Il poco apprezzato professionista” Giuseppe De Santis nasce a Fondi, in provincia di Latina, l’11 febbraio del 1917. Precocissimo nella scrittura (a soli 14 anni inizia a scrivere poesia e racconti). Negli anni Trenta stringe rapporti di amicizia con artisti e giovani intellettuali come Libero De Libero, Renato Guttuso, Corrado Cagli, Pietro Ingrao e soprattutto Gianni Puccini che nel 1940, d’intesa con Francesco Pasinetti, gli propone di collaborare alla rivista «Cinema». Diventato titolare di una rubrica nella prestigiosa rivista di cinema, si iscrive parallelamente al Centro Sperimentale di Cinematografia, conseguendo il diploma di regia. Nello stesso anno, 1942, è sceneggiatore e aiuto regista dell’esordiente Visconti in Ossessione e nell’estate del 1943 segue Rossellini nelle riprese del film che avrebbe dovuto intitolarsi Rinuncia o Scalo merci, interrotto dopo l’8 settembre e ripreso due anni più tardi, con il titolo Desiderio, da Marcello Pagliero. Alla fine del conflitto insieme ad altri transfughi di «Cinema» rileva la rivista «Film» di Mino Doletti. Le collaborazioni si infittiscono, da Il sole sorge ancora di Aldo Vergano al film collettivo Giorni di gloria fino alla sua grande prova d’esordio Caccia tragica. Tra il 1946 e il 1972 De Santis realizza altri undici lungometraggi, cui si aggiungono la sceneggiatura di Donne proibite di Giuseppe Amato e il soggetto de La visita di Antonio Pietrangeli. «Uno degli elementi di originalità di De Santis, in quell’ampia articolazione di punti di vista sul mondo che alimenta i differenti sguardi neorealisti, consiste ora nel situarsi al punto di impatto tra la realtà […] e la scelta di una tradizione di riferimento all’interno della storia del cinema, con tutto ciò che ne consegue in termini di dispositivi linguistici», spiega Toffetti. «De Santis, infatti, non è soltanto l’autore che fa interagire la struttura narrativa dei suoi film con i media: radio, fotoromanzi, pubblicità, ma è sicuramente il più “cinéphile” tra i grandi registi del neorealismo, e reinterpreta creativamente la lezione, in primo luogo tecnico-espressiva, del cinema che ha imparato ad amare da critico e da spettatore: i piani sequenza di Renoir, le ampie inquadrature di Vidor, le eteree carrellate del musical, le luci espressioniste del noir, le masse di Ejzenstejn e, più ancora, di Pudovkin. […] Per De Santis insomma, un movimento di macchina è una questione di “storia”, storia sociale, ma anche storia del cinema. E in questa doppia consapevolezza, l’impegno dichiarato diventa gioco d’amore e di linguaggio, e la ricerca delle cause dell’ingiustizia sociale, si intrecciano con il discorso sull'”origine du monde”». Il 16 maggio 1997 Giuseppe De Santis se ne è andato lasciando un vuoto immenso. E come scrive l’Associazione Giuseppe De Santis (www.assodesantis.com):«Non potendo filmare egli stesso le storie che ideava con un mai sopito impulso creativo, negli anni di inattività forzata egli è comunque riuscito a trasmettere ai giovani la passione per la “settima arte”: negli anni ’80 come insegnante di recitazione al prestigioso Centro Sperimentale di Cinematografia (tra i suoi allievi di allora c’è una fetta di attori del giovane cinema italiano: Iaia Forte, Roberto Di Francesco, Francesca Neri…), nell’anno accademico 1996-97 come docente di regia alla Nuova Università del Cinema e della Televisione di Roma».
Buona parte delle citazioni sono tratte da Sergio Toffetti (a cura di), Rosso fuoco. Il cinema di Giuseppe De Santis, Lindau, Museo del Cinema, Torino, 1996, e Marco Grosso (a cura di), Giuseppe De Santis. La trasfigurazione della realtà, Associazione Giuseppe De Santis, Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma, 2007.
giovedì 23
ore 17.00
Ossessione (1943)
Regia: Luchino Visconti; soggetto: ispirato liberamente al romanzo Il postino suona sempre due volte di James Cain; sceneggiatura: L. Visconti, Mario Alicata, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini; fotografia: Aldo Tonti, Domenico Scala; scenografia: Gino Franzi; costumi: Maria De Matteis; musica: Giuseppe Rosati; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Massimo Girotti, Clara Calamai, Juan De Landa, Dhia Cristiani, Elio Marcuzzo, Vittorio Duse; origine: Italia; produzione: I.C.I. – Industrie Cinematografiche Italiane; durata: 140′
«Dal romanzo Il postino suona sempre due volte (1934) di James Cain: malmaritata a un uomo più vecchio di lei, una donna induce un giovane vagabondo di cui è diventata l’amante a uccidere il consorte in un incidente automobilistico truccato. Qualcosa di più di un film: una bandiera, un manifesto, un simbolo. Memorabile esordio di Visconti, aprì la strada al neorealismo postbellico, agganciò il cinema italiano alla cultura europea della crisi, fu la scoperta di un’Italia amara, fatta con violento pessimismo, tramite il filtro del romanzo nordamericano e del realismo francese di J. Renoir. Nonostante difetti, eccessi, compiacimenti estetizzanti, un ammirevole esempio di fusione tra realismo e decadentismo. […] Marcuzzo (nel film lo Spagnolo) fu impiccato per errore con il fratello Armando (e seppelliti vivi) nell’aprile 1945 da una banda di partigiani, comandata dal sanguinario Gino Simionato detto il Falco che, con altri 3, fu indagato e prosciolto nel ’54 per amnistia. Il romanzo di Cain fu filmato dal francese P. Chenal (1939) e dagli americani T. Garnett (1946) e B. Rafelson (1981)» (Morandini). Oltre a firmare la sceneggiatura, De Santis è stato aiuto regista del film. «Doveva chiamarsi Palude e non Ossessione. […] Palude stava a significare, secondo la moda di quei tempi, la vischiosità morale di tutti i protagonisti della storia e la loro cupa, stagnante tragedia che maturava all’ombra di loschi interessi e di una morbosa sessualità. […]. Nessuno l’ha mai scritto a proposito di Ossessione, ma chi per primo ci aveva parlato di quei luoghi e proposto di ambientarvi il racconto del film, era stato Libero Solaroli, mio insegnante di tecnica della produzione al Centro Sperimentale di Cinematografia e che io avevo fatto conoscere a Visconti per indurlo ad affidargli l’organizzazione di Palude» (De Santis).
ore 19.30
Il sole sorge ancora (1946)
Regia: Aldo Vergano; soggetto: Giuseppe Gorgerino; sceneggiatura: Guido Aristarco, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, A. Vergano; fotografia: Aldo Tonti; scenografia: Fausto Galli; costumi: Anna Gobbi; musica: Giuseppe Rosati; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Elli Parvo, Lea Padovani, Vittorio Duse, Cristina Almirante, Checco Rissone, Carlo Lizzani; origine: Italia; produzione: A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia); durata: 90′
«Dopo l’8 settembre 1943, un militare (Duse) abbandona le armi e torna al suo paese lombardo, occupato dai tedeschi. S’infatua della padrone del forno (Parvo) e sembra propenso a fare la bella vita, ma una giovane operaia antifascista (Padovani) e i compaesani impegnati nella Resistenza lo inducono a scegliere la lotta partigiana. Commissionato dall’Anpi, è uno dei capisaldi del neorealismo e l’unico film di chiara ispirazione marxista prodotto in Italia sulla guerra di Liberazione» (Mereghetti). «Sarà […] con stupore che il nostro pubblico verrà a trovarsi di fronte a personaggi inconsueti, nuovi per il cinema italiano, a personaggi non già idealizzati e recanti le stimmate degli eroi ad ogni costo, ma posti, questa volta, sul gradino naturale di un’esistenza quotidiana ricca di contraddizioni, uomini e donne, insomma, con i loro vizi e le loro virtù. Gli stessi attori scelti per interpretare questi ruoli sono stati costretti a spogliarsi della loro abituale quanto convenzionale maschera. Massimo Serato, nelle vesti di un giovane ufficiale tedesco, Elli Parvo in quelle di una donna sensuale e corrotta, e tutti gli altri, da Lea Padovani, a Vittorio Duse, a Checco Rissone, hanno accettato di buon grado l’interessante trasformazione che pure li costringeva a non lievi sacrifici di vanità» (Giuseppe De Santis).
ore 21.15
Donne proibite (1954)
Regia. Giuseppe Amato; soggetto: dalla commedia Vita nuova di Bruno Paolinelli; sceneggiatura: Giuseppe Mangione, Giuseppe De Santis, Elio Petri, Gianni Puccini, B. Paolinelli, Cesare Zavattini, Siro Angeli, Gigliola Falluto; fotografia: Anchise Brizzi; scenografia: Virgilio Marchi; costumi: Elio Costanzi; musica: Renzo Rossellini; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Linda Darnell, Valentina Cortese, Lea Padovani, Giulietta Masina, Lilla Brignone, Anthony Quinn; origine: Italia; produzione: G. Amato; durata: 89′
A causa della chiusura della casa di tolleranza dove lavorano, delle prostitute devono decidere del loro future e compiono scelte diverse. «Melodramma a tinte fosche […]: più abile come produttore che come regista, Amato mescola peccato e redenzione, moralismo e riflessione sociale, lacrime e speranze in un film convenzionale ma efficace» (Mereghetti).
venerdì 24
ore 17.15
Giorni di gloria (1945)
Regia: Luchino Visconti, Marcello Pagliero, Giuseppe De Santis, Mario Serandrei; commento: Umberto Calosso, Umberto Barbaro; fotografia: Umberto Della Valle, De West, Gianni Di Venanzo, Angelo Jannarelli, Giorgio Lastricati, Novarro, Giovanni Puccini, Reed, Massimo Terzano, Giovanni Ventimiglia, Michel Werdier, Vittoriano, Manlio, Caloz e il contributo dei tecnici del C.L.N. di Milano; musica: Costantino Ferri; montaggio: M. Serandrei, Carlo Alberto Chiesa; origine: Italia; produzione: Titanus, A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia); durata: 71′
«Il film è la rievocazione dei mesi concitati e drammatici che portarono alla liberazione d’Italia: combattimenti partigiani contro gli occupanti, rastrellamenti, rappresaglie nazifasciste, tedeschi che si arrendono, attività clandestine nelle città, lanci con paracadute di rifornimenti ai reparti partigiani; e infine la mobilitazione e gli scioperi che preannunciarono l’insurrezione e la liberazione, ad opera dei reparti partigiani del Comitato di Liberazione Nazionale, di alcune città del Nord: Genova, Torino, Milano, Venezia. Due episodi sono sviluppati con particolare evidenza: il processo a Pietro Caruso, cronaca drammatica del procedimento contro l’ex questore di Roma, uno dei compilatori degli elenchi di ostaggi da trucidare alle Fosse Ardeatine, e il ritrovamento, la ricomposizione e il riconoscimento dei corpi dei 335 esseri umani trucidati dai nazisti e rimasti sepolti per mesi sotto tonnellate di tufo nelle Ardeatine. Di particolare intensità sono anche alcune interviste a donne parenti delle vittime» (Marco Grossi). «Film a carattere collegiale, Giorni di gloria pur essendo una testimonianza vivida della Resistenza, non ha avuto […] accoglienze entusiastiche dal pubblico, anche se generalmente la critica è stata rispettosa nei suoi confronti. Oggi, in assenza di coloro che si sono impegnati nel progetto, non disponiamo di notizie precise e particolareggiate sulla genesi di un film che è stato un work in progress, firmato da tre registi, Giuseppe De Santis, Luchino Visconti, Marcello Pagliero. Perciò è difficile stabilire a quale punto del percorso sia intervenuto De Santis per svolgere funzioni di coordinamento e girare qualche raccordo e alcune scene visibilmente ricostruite. Eppure, gli analisti e gli studiosi commetterebbero un errore se considerassero ininfluenti, nella formazione artistica di De Santis, i due film che preludono all’esordio con Caccia tragica (1947): Giorni di gloria, appunto, e Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano, in cui sono finanche rintracciabili qua e là tratti stilistici ed espressivi tipicamente desantisiani» (Argentieri). Giuseppe De Santis dichiara di aver girato la sequenza ricostruita di un assalto dei GAP nel quartiere Tiburtino di Roma e le interviste ai testimoni nell’episodio delle Fosse Ardeatine.
ore 19.00
Roma ore 11 (1952)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini, Basilio Franchina, G. De Santis, Rodolfo Sonego, Gianni Puccini; fotografia: Otello Martelli; scenografia: Leon Barsacq; costumi: Elio Costanzi; musica: Mario Nascimbene; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Lucia Bosé, Carla Del Poggio, Maria Grazia Francia, Delia Scala, Elena Varzi, Lea Padovani; origine: Italia/Francia; produzione: Transcontinental Film, Titanus; durata: 98′
Una ditta cerca una dattilografa e moltissime ragazze rispondono all’annuncio. La scala crolla e una di loro muore. «In questa piccola folla il De Santis ha naturalmente individuato e sottolineato alcune figurine, dandocene sfondi e chiaroscuri. Nel film, come si usa dire, corale, spicca così questo piccolo coro; e gli episodi s’intersecano, ora amari, ora sardonici, talvolta con uno spento sorriso. Film composito, calcolato, previsto, con un’abilità talvolta sorprendente; e sono questa sicurezza e questa bravura a limitare l’umanità e il valore del film. Che è affastellato e al tempo stesso ordinato; con intarsi e imprevisti da caleidoscopio, e al tempo stesso chiarissimo; con toni d’arida cronaca, e qualche più profondo respiro» (Gromo). «Le due versioni dello stesso fatto di cronaca (De Santis e il Genina che segue [Tre storie proibite]) sono forse, nella loro capacità di ignorarsi, la prova maggiore di quanto vi è stato di grandezza nel cinema italiano tra gli anni Trenta e gli anni Settanta» (Germani).
ore 21.00
Caccia tragica (1947)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis, Carlo Lizzani, Lamberto Rem-Picci; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Umberto Barbaro, G. De Santis, C. Lizzani, Cesare Zavattini; fotografia: Otello Martelli; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Anna Gobbi; musica: Giuseppe Rosati; montaggio: Mario Serandrei; interpreti: Vivi Gioi, Andrea Checchi, Carla Del Poggio, Massimo Girotti, Vittorio Duse, Checco Rissone; origine: Italia; produzione: A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), Dante Film; durata: 90′
«Nell’immediato dopoguerra, un camion sul quale viaggiano i novelli sposi Michele e Giovanna e il ragioniere di una cooperativa agricola, incaricato di portare in sede quattro milioni di lire, viene assalito da un manipolo di banditi. I malviventi bloccano la strada con una finta ambulanza, uccidono l’autista e il ragioniere, si impossessano del denaro e prendono in ostaggio la ragazza. Alberto, il capobanda, è un disoccupato reduce di guerra; Daniela è la sua amante, una ex collaborazionista soprannominata Lili Marlene. I contadini della cooperativa si uniscono ai carabinieri per aiutarli a catturare i malviventi» (Marco Grossi). «In Caccia tragica De Santis fa risaltare una novità di stile che rimarrà fra le sue prerogative, la padronanza della tecnica, e sul piano del contenuto mescola l'”avventura” con la realtà italiana, suscitando il rimprovero di qualche critico che considerava questa commistione troppo audace o addirittura fuori luogo» (Gambetti). Nastro d’Argento per la miglior regia (ex-aequo con Alberto Lattuada per Il delitto di Giovanni Episcopo) e per la miglior attrice (Vivi Gioi).
sabato 25
ore 17.00
Giorni d’amore (1954)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto e sceneggiatura: Libero de Libero, G. De Santis, Elio Petri, Gianni Puccini; fotografia: Otello Martelli; scenografia e costumi: Domenico Purificato; musica: Mario Nascimbene; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Marcello Mastroianni, Marina Vlady, Angelina Longobardi, Dora Scarpetta, Giulio Calì, Fernando Jacovolta; origine: Italia; produzione: Excelsa Film; durata: 102′
«Due giovani contadini di Fondi, Angela e Pasquale, sono promessi sposi da alcuni anni. Per tradizione le nozze devono celebrarsi con tutta solennità e richiedono una notevole spesa economica, ma le famiglie dei fidanzati sono povere e il matrimonio viene rimandato di anno in anno. Un giorno Pasquale deicide di ricorrere a un sotterfugio, con la complicità mascherata dei parenti entrambi: fingerà di rapire Angela, in modo che il matrimonio diverrà inevitabile e le nozze saranno celebrate in fretta e con semplicità. Il piano concordato di nascosto tra le famiglie viene attuato» (Marco Grossi). «Tre anni dopo Due soldi di speranza (1952) di Renato Castellani – un capolavoro che pochi hanno voluto riconoscere come tale – e un anno dopo Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini – una simpatica commedia rusticana che nelle intenzioni del regista avrebbe dovuto essere anche aspra […]. Peppe De Santis, non riuscendo a condurre in porto progetti più ambiziosi, si inserì con molta autonomia nel filone che alcuni critici della sua parte vollero chiamare “neorealismo rosa”. Ne risultò un film spregiudicato e allegro, di una vitalità e di un colore raramente eguagliati nel nostro cinema. Un colore che non era solo quello del Ferraniacolor, che unicamente in questo caso, a mia memoria, fu usato in modo così controllato e personale, sperimentale e autoriale; e per averne conferma basta confrontarlo con gli altri prodotti di quegli anni, dal pioneristico Totò a colori (1952) di Steno a La nave delle donne maledette (1953) di Raffaello Matarazzo» (Fofi). Nastro d’Argento 1954-1955 a Marcello Mastroianni per il miglior attore protagonista.
ore 19.00
Riso amaro (1949)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis, Carlo Lizzani, Gianni Pucini; sceneggiatura: Corrado Alvaro, G. De Santis, C. Lizzani, Carlo Musso, Ivo Perilli, Gianni Puccini; fotografia: Otello Martelli; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Anna Gobbi; musica: Goffredo Petrassi; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Raf Vallone, Doris Dowling, Checco Rissone, Nico Pepe; origine: Italia; produzione: Lux Film; durata: 109′
«Francesca, indotta dal suo amante Walter, ruba una preziosa collana a un cliente dell’albergo in cui lavora come cameriera. Per sfuggire alla polizia si unisce alle mondine che stanno partendo in treno per la stagione lavorativa. Tra le mondariso c’è anche Silvana, un’affascinante ragazza con la testa piena di sogni. Silvana scopre la vera identità di Francesca e riesce a impossessarsi della collana rubata. Walter, per riprendere la collana, cerca di sedurre Silvana, che aveva stretto una relazione con Marco, un giovane sergente in servizio nei pressi della risaia» (Marco Grossi). «Le ragioni per le quali Riso amaro resta un caposaldo emblematico del periodo più fertile del cinema italiano – che possono aiutarci a capire meglio lo stesso fenomeno del neorealismo – sono assai forti. Fin dalla sua nascita il neorealismo sollevò, soprattutto tra i critici italiani, il problema di quanto fosse un movimento unitario, in che misura e perché autori tanto eterogenei […] e di umori così vari fossero visti dalla critica di tutto il mondo come parte di una scuola piuttosto omogenea: dal sofisticato Luchino Visconti al sanguigno De Santis, dal cronachistico Roberto Rossellini al patetico e appassionato Vittorio De Sica. E molti se lo domandano ancora oggi. Proprio Riso amaro (vi giocano la favola e la tranche de vie, il romanzo e il grand guignol, il corale e l’individuale) sembra raccogliere in sé alcune delle aporie più lampanti del neorealismo. Ma se Riso amaro fosse invece un pastiche sia pure geniale, il frutto di una semplice giustapposizione di motivi diversi? Se poi il neorealismo non esistesse, come taluni hanno voluto ribadire in questi ultimi decenni? […] Il rischio di una verifica di tali ipotesi su Riso amaro è alto, ma l’omogeneità del fenomeno Riso amaro è un fatto certo. Avrebbe altrimenti avuto, questo film, la capacità deflagrante – esso sì – di una bomba, se fosse soltanto una aggregazione aritmetica degli elementi che lo compongono? Riso amaro, insomma, come la più suggestiva metafora del neorealismo storico» (Lizzani). Nomination all’Oscar a Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani per il miglior soggetto.
ore 21.00
Non c’è pace tra gli ulivi (1950)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis, Gianni Puccini; sceneggiatura: Libero de Libero, Carlo Lizzani, G. De Santis, G. Puccini; fotografia: Piero Portalupi; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Anna Gobbi; musica: Goffredo Petrassi; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Raf Vallone, Lucia Bosè, Folco Lulli, Maria Grazia Francia, Dante Maggio, Michele Riccardini; origine: Italia; produzione: Lux Film; durata: 103′
«Il pastore Francesco Dominici, tornato dalla guerra, cerca invano lavoro nella sua terra segnata dagli eventi bellici. Una notte, per vendicarsi di un furto di pecore subito dalla sua famiglia e perpetrato dal losco Agostino Bonfiglio, arricchitosi con la borsa nera e l’usura, va a riprendersi le sue pecore con l’aiuto della sua innamorata Lucia e della sorella Maria Grazia, ma viene denunciato e arrestato» (Marco Grossi). «Ogni inquadratura sarebbe da citare, per mettere in rilievo la scultoreità delle pose, il bloccaggio degli sguardi, la composizione in profondità di campo e in diagonali che correlano i personaggi fra loro, la figurazione in contrasti estremi fra bianchi e neri. Se ne potrebbe dedurre un’impressione di staticità complessiva; essa è tuttavia animata, anzi musicalmente ritmata sia dagli stacchi di montaggio, che sono sistematicamente oppositivi, anche se non necessariamente dissonanti, sia dai movimenti di macchina, sempre tesi non ad accompagnare un’azione ma, visibili come sono, a “coreografarla”. […] Tutto questo rende difficile se non impossibile parlare di neorealismo, anche se alcuni referenti di cui il film di De Santis è debitore vengono ascritti a tale scuola: La terra trema (1948) di Luchino Visconti e In nome della legge (1949) di Pietro Germi; ma, appunto, sono film come questi a farci capire che sotto l’etichetta neorealista si celano – accomunate certo da analoghi propositi di denuncia sociale – le più contrastanti tendenze formali. Ma De Santis guarda oltre frontiera: a Orson Welles (al quale potrebbe ascriversi l’uso anomalo della voice over), al messicano Emilio Fernàndez (all’epoca assai considerato in Italia, e maestro dei contrasti bianco-neri col suo direttore della fotografia Gabriel Figueroa, al quale non è escluso che Piero Portalupi si sia ispirato per le luci di questo film), nonché ai sovietici più formalisti, non solo Sergej Ejzenštejn […] ma anche a registi come Grigorij Aleksandrov. E presumibilmente il didattismo esibito di Non c’è pace tra gli ulivi deve molto a questi ultimi» (Aprà).
Copia restaurata dalla Cineteca Nazionale
domenica 26
ore 17.15
La garçonnière (1960)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto e sceneggiatura: Carlo Bernari [non accreditato], G. De Santis, Franco Giraldi, Tonino Guerra, Elio Petri, Ugo Pirro [non accreditato]; fotografia: Roberto Gerardi; scenografia: Ottavio Scotti; musica: Mario Nascimbene; montaggio: Otello Colangeli; interpreti: Raf Vallone, Eleonora Rossi Drago, Marisa Merlini, Gordana Miletic, Nino Castelnuovo, Maria Fiore; origine: Italia; produzione: Ramo Film; durata: 90′
«Alberto Fiorini, un costruttore edile di Roma, è pedinato dalla moglie Giulia, che lo sospetta di adulterio. Difatti l’uomo, che ha già avuto altre relazioni extraconiugali, è ora innamorato della giovanissima indossatrice Laura, la cui frequentazione lo illude di poter ritrovare la giovinezza ormai lontana. Giulia, accompagnata in auto dall’amica Pupa, vede Alberto entrare furtivamente in un edificio, e poco dopo scorge Laura avvicinarsi al castello» (Marco Grossi). «Disagio, crisi, malessere: ripercorrendo buona parte della letteratura storiografica dedicata al cinema italiano dei primi anni ’60, ci si imbatte in una serie di sinonimi che aspirano a riassumere il senso di una lunga stagione perennemente “transitoria”, priva di unitarietà e articolata in percorsi individualizzati (quelli degli Autori), ma al tempo stesso livellata dall’incertezza e dalla carenza di vere prospettive. L’eredità del neorealismo è spezzata, disconosciuta, rinnegata […]. In questo contesto storico, Giuseppe De Santis realizza il proprio “film del malessere”, La garçonnière; la differenza profonda con il cinema coevo è nella lucidità dell’assunto ideologico e nella chiarezza degli intenti. Per De Santis il transito verso il nuovo decennio potrà pur essere infido e scivoloso, ma il passo deve essere sicuro e la meta fissata» (Bandirali).
ore 18.45
Cesta duga godine dana (La strada lunga un anno, 1958)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis, Elio Petri, Gianni Puccini; sceneggiatura: G. De Santis, Maurizio Ferrara, Tonino Guerra, E. Petri, G. Puccini, Mario Socrate; fotografia: Marco Scarpelli; scenografia: Zelimir Zagotta; costumi: Oto Reinger, Jagoda Buic Bonetti; musica: Vladimir Kraus-Rajeteric; montaggio: Boris Tesija; interpreti: Silvana Pampanini, Eleonora Rossi Drago, Massimo Girotti, Bert Sotlar, Milivoje Zivanovic, Gordana Miletic; origine: Jugoslavia; produzione: Jadran Film; durata: 143′
«Gli abitanti di un piccolo centro di montagna sembrano condannati a una eterna disoccupazione. Una mattina Guglielmo, stanco di aspettare un lavoro che non arriva mai, decide di costruire una strada per collegare il paese al mare. Fa credere ai suoi compaesani di aver ricevuto l’incarico dalle autorità pubbliche allo scopo di coinvolgere i tanti disoccupati nell’iniziativa e costringere poi gli amministratori a retribuire tutti i lavoratori per l’impresa portata a compimento» (Marco Grossi). «Io avrei voluto fare grandi romanzi, film d’impatto sociale, e invece, nella migliore delle ipotesi, le condizioni produttive del cinema italiano mi consentivano commedie come Giorni d’amore. In Jugoslavia ho girato La strada lunga un anno, tutto il film l’ho ambientato in Dalmazia scegliendo posti che assomigliassero alla mia Ciociaria il più possibile, le pietruzze, le montagne, le case, il mare, le strade; l’edizione italiana, poi, è parlata tutta in dialetto del basso Lazio. Per il film ho goduto di libertà assoluta, gli jugoslavi mi chiesero soltanto, per ragioni diplomatiche, di mettere una didascalia iniziale, dove si spiegava che la storia si svolgeva in un paese immaginario, per non evitare noie con lo Stato italiano. La scelta di girare in Jugoslavia, comunque, mi fu fatta pagare. Venezia rifiutò il film perché “troppo lungo”, e in Italia praticamente non lo vide nessuno» (De Santis). Nomination all’Oscar per il miglior film straniero (1958).
ore 21.30
Italiani brava gente (1964)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto: Ennio De Concini, G. De Santis; sceneggiatura: Sergej Smirnov, E. De Concini; fotografia: Toni Secchi; scenografia: Ermanno Manco; costumi: Luciana Marinucci musica: Armando Trovajoli; montaggio: Mario Serandrei, Claudia Moskvina; interpreti: Arthur Kennedy, Andrea Checchi, Riccardo Cucciolla, Raffaele Pisu, Tatiana Samoilova, Zanna Prokhorenko; origine: Italia/Urss; produzione: Galatea, Coronet, Mosfilm; durata: 148′
«È il 1941 e la campagna italiana in Russia è appena iniziata. Su un treno viaggiano soldati provenienti da tutte le regioni d’Italia. La Storia si fonde con le vicende personali di alcuni uomini. L’ottimismo di chiara fede fascista di alcuni non è condiviso dall’esperto e onesto colonnello Sermonti» (Marco Grossi). «Opera numero 10 e penultima del regista di Fondi […], Italiani brava gente, nel narrare le tragiche vicende della spedizione italiana, fra il 1941 e il 1943, nella campagna di Russia della seconda guerra mondiale (una guerra “senza ragione, senza scuse, senza onore” l’aveva definita Pietro Nenni), si costruisce su uno dei principi fondanti del cinema, la “qualità dell’immagine di attualizzare il passato” (Edgar Morin), in virtù del quale la ripresa (il “ciò che è stato”) si attualizza nella visione (in “ciò che è”), e l’allora e l’altrove si mutano misteriosamente in un qui e in un ora e questa straordinaria peculiarità è ottenuta creando un evidente sfasamento temporale fra immagini e colonna sonora, laddove le prime, presentate nel loro farsi, sono commentate dalle voci dei soldati che in quell’assurdo conflitto perderanno, uno dopo l’altro, la vita. Come nell’Antologia di Spoon River, essi ricordano e in tal modo rievocano e la memoria diventa il segno significante dell’opera, pensiero che si fa atto. Il futuro della loro morte commenta già il presente della loro esistenza» (Giacci).
lunedì 27
chiuso
martedì 28
ore 17.00
Uomini e lupi (1957)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis, Tonino Guerra, Elio Petri; sceneggiatura: G. De Santis, E. Petri, Ugo Pirro, Gianni Puccini, con la collaborazione di Ivo Perilli; fotografia: Piero Portalupi; scenografia: Ottavio Scotti; costumi: Graziella Urbinati; musica: Mario Nascimbene; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Silvana Mangano, Yves Montand, Pedro Armendàriz, Irene Cefaro, Giulio Calì, Guido Celano; origine: Italia-Francia; produzione: Titanus, SGC; durata: 104′
«La minaccia dei lupi incombe come ogni inverno su un piccolo paese delle montagne abruzzesi, Vischio. Le belve feroci fanno strage di pecore e costituiscono una minaccia anche per gli animali rinchiusi nelle stalle. Attirati da un premio di ventimila lire per ogni belva uccisa, due lupari raggiungono il paese. Giovanni, uomo maturo, ha già ucciso molti lupi e ha necessità di guadagnare per mantenere la moglie Teresa e il figlio Pasqualino. Ricuccio, giovane simpatico e baldanzoso, sembra in realtà interessato solo a sfruttare la situazione e l’ospitalità per andare a caccia di donne» (Marco Grossi). «Il sale di Uomini e lupi, il segreto della sua tenuta, sta proprio nell’essere fuori dal tempo, opus perfettamente preistorico. Del mito e dell’epos, prima del patto della legge e della moneta (che mai come qui prende la sua forma dalla caciotta: Pasqualino ci vorrebbe adescare pure il lupo). Non ci sono preti né sindaci, guardie né carabinieri. Solo magazzini e osterie, anche se Ricuccio non ha bisogno di vino per vaneggiare: gli basta la finestra d’un paese di fantasmi per lanciarsi in comizi d’amore» (Sanguineti).
Per gentile concessione di Rai Cinema, copia proveniente dalla Cineteca di Bologna – Ingresso gratuito
ore 19.00
Un marito per Anna Zaccheo (1953)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis, Alfredo Giannetti, Salvatore Laurani; sceneggiatura: G. De Santis, A. Giannetti, S. Laurani, Elio Petri, Gianni Puccini, Cesare Zavattini; fotografia: Otello Martelli; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Paolo Ricci; musica: Rino da Positano; montaggio: Gabriele Varriale; interpreti: Silvana Pampanini, Amedeo Nazzari, Massimo Girotti, Umberto Spadaro, Monica Clay, Franco Bologna; origine: Italia; produzione: Domenico Forges Davanzati; durata: 106′
«Il matrimonio è il sogno di Anna Zaccheo, una bellissima ragazza figlia di un conducente della funicolare di Napoli. Il ricco pescivendolo don Antonio, rozzo e sgraziato, smania per averla in sposa e le invia continuamente dei fiori per tentare di apreire una breccia nel suo cuore. Ma egli non è certo l’uomo dei sogni di Anna, che sembra invece interessata ad Andrea, un marinaio di Ancona bello e gentile» (Marco Grossi). «Con Un marito per Anna Zaccheo, […], De Santis rielabora alcuni dei temi che gli stanno particolarmente a cuore (l’eterna casistica del desiderio amoroso, la forza e la debolezza del sex appeal femminile, il conflitto tra modernità e tradizione) nella cornice quanto mai propizia del filone napoletano dove, com’è universalmente noto, le coordinate sociali o politiche lasciano il passo al melodramma della diversità tenace, dell’emigrazione senza scampo di una classe subalterna efficacemente identificata nel proprio immaginario, nella propria sottocultura, nella propria sfrontata “rappresentabilità”, nel proprio – come si direbbe oggi – look» (Caprara).
Per gentile concessione di Cristaldi Film, copia proveniente dalla Cineteca di Bologna – Ingresso gratuito
ore 21.00
Un apprezzato professionista di sicuro avvenire (1972)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto e sceneggiatura: G. De Santis, Giorgio Salvioni; fotografia: Carlo Carlini; scenografia e costumi: Giuseppe Selmo, Enrico Checchi; musica: Maurizio Vandelli; montaggio: Adriano Tagliavia; interpreti: Lino Capolicchio, Riccardo Cucciolla, Femi Benussi, Robert Hoffmann, Ivo Garrani, Yvonne Sanson; origine: Italia; produzione: Filmnova; durata: 134′
«Il giovane avvocato Vincenzo Arduini è figlio di un onesto capostazione. Molto ambizioso, sposa Lucia, figlia di un costruttore senza scrupoli, e diventa assessore all’urbanistica. Durante la prima notte di matrimonio scopre di essere impotente. Ma il suocero vuole a tutti costi un nipote e, scartata l’ipotesi di adottare un bambino per non essere messo in ridicolo pubblicamente, Vincenzo convince Lucia a farsi fecondare da un altro uomo» (Marco Grossi). «Nel 1972, per riuscire finalmente a chiudere un progetto, costituisco una società di produzione con lo sceneggiatore Giorgio Salvioni. Un apprezzato professionista di sicuro avvenire è di nuovo un film ispirato a un fatto di cronaca, come mi è accaduto quasi sempre, perché la cronaca mi ha sempre stimolato. Il film è stato bocciato in censura due volte, perché la vicenda di un prete che scopre la dimensione del rapporto sessuale faceva scandalo. Il film è stato massacrato dalla critica…» (De Santis). «Un apprezzato professionista di sicuro avvenire è un film, indubbiamente personale, le cui qualità principali possono facilmente venire scambiate per difetti: gusto dell’ampollosità, del melodramma, enorme sovraccarico di ironia […]; al punto tale che la sceneggiatura, che avrebbe potuto funzionare come l’ispirazione socio-poliziesca di un Damiano Damiani, si trasforma in una gigantesca farsa, un irridente numero da grand-guignol che va letto al di là delle apparenze. […] Situato, malgrado le risonanze della sceneggiatura, nettamente al di fuori della corrente sociopolitica della produzione italiana, Un apprezzato professionista è una favola delirante sull’arrivismo, le ossessioni sessuali, l’impotenza, che Lino Capolicchio, Riccardo Cucciolla, Femi Benussi, Ivo Garrani e Yvonne Sanson interpretano con tutta la dismisura ironica richiesta. Peraltro, il film risulta piuttosto rivelatore di una comunanza di idee e di fattura tra De Santis e il Petri di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» (Christian Viviani).
mercoledì 29
La sottile linea rosa 3: appuntamenti con il cinema delle donne
Omaggio a Rosalia Polizzi
Dopo i successi della prima e della seconda edizione della rassegna, curate da Maria Coletti e dedicate nel 2006 e nel 2007 a una carrellata lungo trent’anni di cinema italiano al femminile, riallacciamo il filo con la produzione cinematografica italiana realizzata dalle donne, in una ipotetica “controstoria” del cinema italiano, attraverso figure di registe o attrici che vogliamo ricordare e (ri)vedere. Gli appuntamenti mensili, a cura di Maria Coletti e Annamaria Licciardello, vogliono tessere una sorta di storia sotterranea, che possa rendere conto, pur con le inevitabili lacune, di ciò che è stato prodotto in questi anni dalle donne, attraverso le mille tematiche affrontate, e i molti stili che le riflettono: il corpo, la memoria, la storia, il paesaggio italiano e le trasformazioni sociali e familiari, le piccole e grandi resistenze. Una molteplicità di sguardi e di riflessioni sul cinema e sulla realtà italiana che trova un corrispettivo linguistico anche nella varietà dei formati, dalla pellicola al video, dalla finzione al documentario.
L’appuntamento di febbraio vuole rendere omaggio alla regista italo-argentina, ex allieva del Centro Sperimentale di Cinematografia, Rosalia Polizzi, da poco scomparsa. «La storia delle donne in Italia e del femminismo non può essere studiata senza la conoscenza dell’opera e dei film di questa regista. Rosalia Polizzi è stata una testimone e una interprete molto attenta del movimento femminista, ne ha raccontato le lotte e le conquiste e ha contribuito a far conoscere e a diffondere il pensiero delle donne. I suoi film documentari, degli anni settanta in particolare, sono stati citati, con il riuso di alcuni brani, in diversi film successivi, da una nuova generazione di giovani registe per le loro opere sul tema della condizione femminile. Citiamo in particolare Alina Marazzi e Silvia Savorelli» (Aamod).
Cortometraggi in collaborazione con l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
ore 17.00
Riconciliati (2000)
Regia: Rosalia Polizzi; soggetto e sceneggiatura: R. Polizzi; fotografia: Giovanni Battisti Marras; musica: Simone De Santis, Remo Fiore; montaggio: Paolo Benassi; interpreti: Veronica Visentini, Giovanni Vettorazzo, Paola Pitagora, Vittorio Viviani, Beatrice Palme, Ana Valeria Dini; origine: Italia; produzione: Technovisual; durata: 96′
In un lungo weekend si ritrova un gruppo di amici, eterogenea rappresentanza degli ultimi venticinque anni della sinistra italiana. Alcuni di loro non si vedono da tempo, l’occasione dell’incontro è l’uscita dal carcere di un ex amico e compagno, accusato dell’uccisione di un giudice negli anni Ottanta. Roberto Ferro è in libertà condizionata e vuole sapere chi, fra i suoi compagni di un tempo, l’ha denunciato. «Riconciliati, il secondo lungometraggio di Rosalia Polizzi, a sei anni di distanza dal precedente Anni ribelli, è nella sezione Panorama del Festival di Berlino. Il film narra la fine di una passione politica e il suo riconciliarsi in qualche modo, non esente da conflittualità, con la perdita del sogno. È la storia di un contrasto generazionale tra genitori ex sessantottini e figli adolescenti nell’era veloce della tecnologia. È un mettere a confronto due stili di vita divisi da una manciata d’anni che hanno spazzato via ogni utopia, prima tra tutte quella del socialismo. È la vita vera di molti cinquantenni d’oggi rimasti incastrati nell’illusione/delusione dei credo degli anni settanta, e mai cresciuti sopra. Un po’ bambini, a volte più dei loro figli, cui non hanno dato regole per spirito di libertà e che sono cresciuti senza una precisa identità. […] Due generazioni a confronto, una incastrata nei sogni che ha generato l’altra, senza identità. Riconciliarsi sembra un’utopia» (Beatrice Rutiloni, Aamod).
ore 19.00
Anni ribelli (1994)
Regia: Rosalia Polizzi; soggetto e sceneggiatura: R. Polizzi, Mario Prosperi; fotografia: Juan Carlos Lenardi; montaggio: Alfredo Muschietti; costumi: Michela Gisotti; musica: Luis Bacalov; scenografia: Santiago Elder; interpreti: Leticia Bredice, Massimo Dapporto, Alessandra Acciai, Adelaide Alessi, Eva Burgos, Juan Cruz Bordeau; origine: Italia/Argentina; produzione: Sintra, Division Productiones; durata: 108′
Nella Buenos Aires del 1955, quando cadde Peron, l’adolescente Laura cerca di sfuggire all’abbraccio soffocante della famiglia siciliana e al rapporto di amore-odio verso il padre, attraverso la cultura, l’amore per il teatro e il cinema e l’impegno politico. Fortemente autobiografica e densa di citazioni, l’opera prima della Polizzi tratteggia un’educazione sentimentale al femminile che si realizza attraverso l’uccisione metaforica del padre e insieme verso la riscoperta delle proprie radici italiane. «”Far l’America e tornare: questo pensavamo in tanti, invece siamo qui…” è la romantica canzone (in do minore) alla radio, canzone di successo scritta dallo zio della protagonista, la sedicenne Laura, interpretata da Leticia Bredice, una rivelazione per lo schermo. Sono suoi gli anni ribelli dell’adolescenza, vissuti al limite degli anni Cinquanta. […] Rosalia Polizzi (coautrice anche delle canzoni della colonna sonora, accanto ai tango di Pugliese) regista di vasta esperienza televisiva ha raccontato qualcosa di sé e dei suoi ricordi, anche lei nata in Argentina e poi arrivata in Italia con una borsa di studio e diplomata al Centro Sperimentale. […] Cade Peron, i capi di esercito e marina prendono il potere e negli stessi giorni muore il padre: lei resta impietrita vedendolo morire senza muoversi per dargli le sue medicine, è come la liberazione da un incubo. Più declina il padre, più lei diventa grande e sicura, con la sua morte inizia la sua vita e si prepara al grande viaggio verso l’Italia. In quella casa di tante donne dove un solo uomo tiene in pugno diverse vite abbiamo la visione un po’ anacronistica ma neanche tanto lontana di un autentico maschio latino vecchio stile accanto al ricordo di gesti precisi (la nonna che spreme il succo di limone nell’acqua e parla una lingua antica), il lavoro di sarti in casa che padre e nonna eseguono con abilità, le feste di famiglia. L’atmosfera della casa e del film mantiene il tono di dolcezza che solo il ricordo e la riconciliazione possono concedere» (Silvana Silvestri, Associazione Lucrezia Marinelli. Archivioteca di film a regia femminile).
ore 21.00
Da bravi amici (1964)
Regia: Rosalia Polizzi; soggetto: R. Polizzi; fotografia: Carlo Tafani; scenografia: Gisella Longo; aiuto regia: Franco Brocani; interpreti: Luigi Pierdominici, Nanni Loy; origine: Italia; produzione: Csc; durata: 8′
Short del II anno del corso al Csc, questa esercitazione è stata realizzata in due giorni, il 13 e 14 aprile 1964. Il solito intellettuale che vuol troncare una relazione con una ragazza molto giovane e non trova le parole.
Ingresso gratuito
a seguire
La donna è cambiata l’Italia deve cambiare (1976)
Regia: Rosalia Polizzi; testo: Bianca Bracci Torsi, Raffaella Fioretta; fotografia: Mario Barsotti; montaggio: Carla Simoncelli; voce narrante: Gabriella Genta; origine: Italia; durata: 33′
Documentario realizzato per la campagna elettorale del 20 giugno 1976 dedicato ai problemi delle donne e quindi rivolto all’elettorato femminile. È costituito prevalentemente di interviste con donne sui problemi centrali della questione femminile: il voto, le pari opportunità, l’occupazione, l’aborto, i loro diritti e così via. È montato poi con importanti immagini di repertorio sulle lotte delle donne e delle manifestazioni da loro condotte; vi sono anche repertori relativi alle elezioni del 1946 (dove vinse la Repubblica) con Palmiro Togliatti al voto; una manifestazione per l’avanzamento del PCI alle elezioni del 15 giugno 1975 in cui Enrico Berlinguer tenne un comizio.
Per gentile concessione dell’Aamod – Ingresso gratuito
a seguire
Madre ma come? (1977)
Regia: Rosalia Polizzi; fotografia: Paolo D’Ottavi, Maurizio Dell’Orco; montaggio: Laila Cella; origine: Italia; produzione: Unitelefilm; durata: 34′
Il documentario, attraverso testimonianze di donne, racconta la difficoltà di realizzare una maternità serena e consapevole in relazione a problemi quali la salute, il lavoro, gli asili nido, la contraccezione, l’aborto. Il film è interamente costruito sulla base di testimonianze raccolte in varie parti d’Italia e in varie situazioni: una fabbrica occupata da donne operaie, un asilo nido, un consultorio, la corsia di un reparto maternità. La vicenda di una emblematica maternità fa da filo conduttore all’inchiesta. Il documentario vuole anche stimolare una maggiore presa di coscienza del rapporto uomo-donna affinché diventi veramente un rapporto paritario.
Per gentile concessione dell’Aamod – Ingresso gratuito
a seguire
Madri e figli (1977)
Regia: Rosalia Polizzi; fotografia: Paolo D’Ottavi; montaggio: Laila Cella; musica: Sergio Pagoni; voce narrante: Gabriella Genta; origine: Italia; produzione: Unitelefilm; durata: 13′
Documentario sul rapporto tra madri e figli, sull’aborto e sulla natalità, sul diritto alla scuola per i bambini. Il complesso problema della condizione della donna nella società d’oggi è affrontato dal film, in particolare quello della maternità in rapporto ai servizi sociali: consultori, ambulatori, asili nido, scuole materne.
Per gentile concessione dell’Aamod – Ingresso gratuito