Pop Film Art
01 Giugno 2013 - 11 Giugno 2013
Nel 2012 è uscito un libro fondamentale nato dallo sforzo di due importanti istituzioni come il Centro Sperimentale di Cinematografia e Cinecittà Luce, insieme all’impegno di una casa editrice, Edizioni Sabinae, che anno dopo anno, si sta imponendo come punto di riferimento culturale di monografie di altissimo livello. Il libro in questione è Pop film Art. Visual culture, moda e design nel cinema italiano anni ’60 e ’70, curato da Stefano Della Casa e Dario E. Viganò, con la collaborazione di Pierpaolo De Sanctis. Spiega Viganò: «Con Pop film Art prosegue la nostra ricognizione nelle stagioni d’oro del cinema italiano. Dopo il fenomeno della Hollywood sul Tevere, analizzato nell’omonimo volume, sempre a cura del sottoscritto e di Stefano Della Casa (Electa, 2010), è la volta dell’influenza della Pop Art e del design nel cinema italiano dalla metà degli anni ’60 alla metà degli anni ’70. […] Pop film Art è il primo volume che affronta sistematicamente i rapporti tra cinema italiano, pop Art e design, finora sviscerato in singoli saggi […] e nella presentazione dei singoli film. Significative, in tal direzione, le scelte operate nel 2003 da Stefano Della Casa per la retrospettiva della Mostra del Cinema di Venezia L’industria dei prototipi, con titoli pop fondamentali come Diabolik e Terrore nello spazio di Mario Bava, La morte ha fatto l’uovo di Giulio Questi, Toby Dammit di Federico Fellini, di cui Della Casa ha colto la centralità nei processi produttivi ed estetici degli anni ’60. Da quelle scelte siamo ripartiti». Ma al di là dei saggi di Vittorio Sgarbi, Gianni Canova, Bruno Di Marino, Dario E. Viganò, Luca Barra, Domenico Monetti, Luca Pallanch, senza dimenticare l’apporto fondamentale nell’ideazione del volume di Pierpaolo De Sanctis, così come le preziose interviste ad alcuni protagonisti dell’epoca (i registi Roberto Faenza, Giulio Questi, Tinto Brass, Franco Brocani, Franco Rossetti, Piero Schivazappa, il trailer-maker Miro Grisanti, lo scenografo Pier Luigi Pizzi, il produttore Ettore Rosboch), il vero protagonista di Pop film Art sono proprio le immagini, provenienti dall’Archivio Fotografico del Centro Sperimentale di Cinematografia, che «estrapolate dal loro contesto, avulse da qualsiasi logica narrativa, si stagliano come quadri in un’ideale galleria d’arte, perfettamente pop, grazie all’opera di viraggio di Romana Nuzzo, che ha isolato, evidenziandoli, i dipinti, gli oggetti, i vestiti, in un gioco di scomposizione, analogo al processo creativo dei maestri della Pop Art» (Viganò). Ed è per questo motivo che per festeggiare questo importante evento editoriale, insieme alla rassegna pop al Cinema Trevi, si potrà rimirare nella Galleria dell’incantevole Biblioteca Angelica (via di Sant’Agostino 11, Roma), dal 23 maggio al 30 giugno, la mostra fotografica curata da Simone Casavecchia (Edizioni Sabinae).
sabato 1
ore 17.00
Il deserto rosso (1964)
Regia: Michelangelo Antonioni; soggetto e sceneggiatura: Tonino Guerra, M. Antonioni; fotografia: Carlo Di Palma; scenografia: Piero Poletto; costumi: Gitt Magrini; interpreti: Monica Vitti, Richard Harris, Carlo Chionetti, Xenia Valderi, Rita Renoir, Lili Rheims; origine:Italia/Francia; produzione: Film Duemila, Cinematografica Federiz, Francoriz Production; durata: 117′
«A Ravenna, ridotta a deserto industriale, una giovane borghese nevrotica, moglie di un ingegnere, cerca vanamente un equilibrio, si fa un amante e vaga senza trovare soluzione alla sua crisi. 9° film di Antonioni, e il suo primo a colori, in funzione soggettiva (fotografia di Carlo Di Palma, Nastro d’argento) come espressione di una realtà dissociata e con ambizione di trasformarlo esso stesso in racconto come “mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose”. Come nei 3 precedenti film con Monica Vitti, la donna è l’antenna più sensibile di una nevrosi comune nel contesto della società dei consumi e della natura inquinata. Leone d’oro alla Mostra di Venezia» (Morandini). «Questo è […] il meno autobiografico dei miei film. È quello per il quale ho tenuto di più l’occhio rivolto all’esterno. Ho raccontato una storia come se la vedessi accadere sotto i miei occhi. Se c’è ancora dell’autobiografia, è proprio nel colore che si può trovarla. I colori mi hanno sempre entusiasmato. Io vedo sempre a colori. Voglio dire: mi accorgo che ci sono, sempre. Sogno, le rare volte che sogno, a colori» (Antonioni).
ore 19.00
Un tranquillo posto di campagna (1968)
Regia: Elio Petri; soggetto: Tonino Guerra, E. Petri; fotografia: Luigi Kuveiller; scenografia: Sergio Canevari; costumi: Franco Carretti; musica: Ennio Morricone; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Franco Nero, Vanessa Redgrave, Georges Geret, Gabriella Grimaldi, Madeleine Damien, Rita Calderoni; origine: Italia/Francia; produzione: P.E.A., Produzioni Associate Delphos, Productions Artistes Associés; durata: 107′
«Pittore di successo in crisi creativa, dilaniato dalla volontà di contestazione e dalle richieste del mercato, ha un rapporto schizofrenico di amore/odio con la donna che gli fa da amante, amministratrice e infermiera e, per sfuggirla, si rifugia in una villa veneta, da anni disabitata, e cerca la compagnia di un fantasma. Film sulla pittura (sulla pop art, usando i quadri dell’americano Jim Dine), sulla ricerca disperata della bellezza perduta, sulla morte dell’arte, sui rapporti tra arte e realtà, “… è prima di ogni altra cosa un giro di boa tecnico: di tecnica narrativa, di montaggio, di ritmi, di effetti speciali, di fotografia. Senza l’esperienza maturata sarebbero forse impensabili i successivi film…” (A. Rossi)» (Morandini).
ore 21.00
Break-up (1968)
Regia: Marco Ferreri; soggetto e sceneggiatura: M. Ferreri, Rafael Azcona; fotografia: Aldo Tonti; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Luciana Marinucci; musica: Teo Usuelli; montaggio: Renzo Lucidi; interpreti: Marcello Mastroianni, Catherine Spaak, Ugo Tognazzi, William Berger, Ennio Balbo, M. Ferreri; origine: Italia/Francia; produzione: Compagnia Cinematografica Champion, Les Films Concordia; durata: 86′
Proprietario di una fabbrica di caramelle, Mario si lascia convincere da un esperto a fare una campagna pubblicitaria basata su dei palloncini gonfiabili. Da quel momento, preso nell’ingranaggio dell’idea, Mario vive con un palloncino per le mani. Il suo chiodo fisso diventa quello di scoprirne il limite di gonfiabilità. Realizzato nel 1964 con il titolo L’uomo dei cinque palloni viene rifiutato dal produttore Carlo Ponti perché ritenuto poco commerciale. All’insaputa del regista il film viene rimontato, ridotto a 25′ e inserito in un film ad episodi, Oggi, domani, dopodomani (1965). La versione originale esce in Francia nel 1969 con il titolo Break-up e in Italia nel 1979.
domenica 2
ore 18.00
Le tentazioni del dottor Antonio (ep. di Boccaccio 70, 1962)
Regia: Federico Fellini; soggetto e sceneggiatura: F. Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli; collaborazione alla sceneggiatura: Brunello Rondi, Goffredo Parise; fotografia: Otello Martelli; scenografia: Piero Zuffi; musica: Nino Rota; montaggio: Leo Catozzo; interpreti: Peppino De Filippo, Anita Ekberg, Mario Passante, Silvio Bagolini, Polidor, Alfredo Rizzo; origine: Italia/Francia; produzione: Concordia Compagnia Cinematografica, Cineriz, Francinex, Gray Films; durata: 60′
Il dottor Antonio Mazzuolo è un moralista: fa parte di una commissione di censura del Ministero dello Spettacolo; vive, scapolo, con la madre e le sorelle. Un giorno, montano davanti a casa sua un cartellone per la pubblicità del latte, che raffigura una donna provocante e gigantesca. Sconvolto, Antonio si prodiga inutilmente per la sua rimozione. Immagina che la donna scenda dal cartellone e lo conduca nel suo mondo gigantesco. Si innamora di questa donna mitica, ma lei lo deride e lo sfugge. Antonio finisce per impazzire. «”Le tentazioni del Dottor Antonio – dice Fellini – è solo uno scherzo. Non parlatene come di una cosa seria”. Ma poi, subito dopo, si confessa. In fondo il suo sketch ha una storia, anche se breve. Erano i tempi, quando Ponti e Cervi gli parlarono di Boccaccio ’70, di Trombi e Spagnuolo. Ma soprattutto era da poco finita la ventata polemica e talvolta astiosa e velenosa contro “l’immoralità” de La dolce vita. Ci fa capire insomma che Le tentazioni del Dottor Antonio non è casuale. C’era il pungolo, per Fellini, ed era la reazione contro la censura. Il pretesto per superare una situazione amara e spiacevole di cui ancora conserva le tracce, in se stesso. Lo sketch è servito un po’ come da liberazione. Alla radice di tutto questo c’è l’ultimo articolo su La dolce vita che P. Baragli scrisse su “La civiltà cattolica”. Accusò lui e Rizzoli di aver realizzato il film per soldi; disse tra l’altro che il film pretendeva di essere un “giudizio”, un giudizio però di persone che erano immerse nel vizio fino al collo. Un’offesa insomma anche ai gesuiti genovesi e milanesi che lo avevano aiutato. […] Ecco quindi la reazione, con Le tentazioni del Dottor Antonio. Si trattava di inventare una storia (ne parlò con Flaiano e Pinelli) sul moralismo più deteriore, su un personaggio divorato dalla sua naturalezza inespressa, per reagire contro la censura, contro quelle persone che avevano avuto il coraggio di imprigionare persino Chagall. Nacque così in brevissimo tempo, in quindici giorni appena, la storia del Dottor Antonio, questa “girandola” sul nostro tempo che – sottolinea Fellini – ha una dimensione clownesca» (Di Carlo, Frattini (a cura di), Boccaccio ’70, Cappelli, Bologna, 1962).
ore 19.00
Morire gratis (1966-67)
Regia: Sandro Franchina; soggetto e sceneggiatura: S. Franchina; fotografia: Guido Cosulich; musica: Stefano Torossi; interpreti: Franco Angeli, Karen Blanguernon, Isabel D’Avila, Mario Pisu, Adriano Amidei Migliano, Sandro Brunori; origine: Italia; produzione: Fedel Film; durata: 88′
È lunga la strada che porta da Roma a Parigi. Franco, artista impotente e alcolizzato, la percorre di corsa con la sua automobile per trasportare la scultura di una lupa capitolina che nasconde della droga. Per strada incontra Michelle, una ragazza francese che diventa sua compagna d’avventura in un viaggio insensato e frenetico. Documento di una generazione irrequieta e allo sbando, Morire gratis potrebbe essere una sorta di Easy Rider italiano girato con due anni di anticipo rispetto al film di Hopper, così come è in anticipo sul ’68, di cui nel film si avverte ampiamente l’imminente avvento. Ed è l’unico lungometraggio di Sandro Franchina, artista poliedrico e enfant prodige del cinema italiano (era lui il bimbo protagonista di Europa ’51 di Roberto Rossellini). «Curioso road movie in anticipo sui tempi, anche se calato in un’atmosfera d’avanguardia anni Sessanta, con il frequente ricorso a voci fuori campo e musica sarcastiche o stranianti. Il ritratto del maledetto senza perché, dell’annoiato post-Sartre e post-Camus, sa certo di letteratura: ma colpisce, oggi, il modo di raccontare fenomenologico, aspro, asciutto, che rischia anche la lungaggine per far entrare lo spettatore in una dimensione vagamente allucinata» (Mereghetti).
ore 21.00
La decima vittima(1965)
Regia: Elio Petri; soggetto: dal racconto La 7ª vittima di Robert Sheckley; sceneggiatura: Ennio Flaiano, Tonino Guerra, Giorgio Salvioni, E. Petri; fotografia: Gianni Di Venanzo; scenografia: Piero Poletto; costumi: Giulio Coltellacci; musica: Piero Piccioni; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Marcello Mastroianni, Ursula Andress, Elsa Martinelli, Salvo Randone, Massimo Serato, Milo Quesada; origine: Italia/Francia; produzione: Compagnia Cinematografica Champion, Les Films Concordia; durata: 90′
In una società tecnologica futura, non essendoci più guerre, l’aggressività viene scaricata attraverso la caccia all’uomo, nella quale vince chi totalizza dieci vittime. Marcello e Caroline sono entrambi a quota nove, l’uno dà la caccia all’altra giocando l’arma della seduzione e dell’amore. «La decima vittima era un film assai rischioso: tratto da uno dei migliori racconti americani di fantascienza, La decima vittima [La settima vittima] di Robert Sheckley, non pensavamo che potesse trovare una plausibile ambientazione italiana. Da noi la fantascienza è quella che può essere in un paese povero anche di scienza, tutta merce d’importazione: in Italia il futuro non è cominciato, siamo ancora alla liquidazione dei residui feudali; e quando vaticiniamo su ciò che accadrà dopodomani la fantasia resta al palo. Ogni precedente tentativo di “science fiction” indigena, compreso lo sfortunato Omicron di Gregoretti, era finito miseramente: e l’idea del nostro Petri alle prese con un tipico racconto newyorkese, legato alla crudele atmosfera della metropoli e impensabile sotto cieli non americani, non ci tranquillizzava affatto. E invece, vedere per credere, il film è di prim’ordine» (Kezich).
lunedì 3
chiuso
martedì 4
ore 17.00
Nerosubianco (1969)
Regia: Tinto Brass; soggetto: T. Brass; sceneggiatura: T. Brass, Franco Longo, Giancarlo Fusco; fotografia: Silvano Ippoliti; scenografia: Peter Murray; costumi: Giuliana Serano; montaggio: T. Brass; musica: Freedom; interpreti: Anita Sanders, Terry Carter, Nino Segurini, Umberto Di Grazia, Giancarlo Fusco; origine: Italia; produzione: Lion Film; durata: 77′
Una giovane donna accompagna il marito a Londra per un impegno di lavoro. Mentre passeggia per la città le immagini reali si mischiano al sogno e all’immaginazione. Come il precedente Col cuore in gola, anche Nerosubianco insiste sull’immaginario caleidoscopico della swinging London, centrifugata in un mosaico psichedelico che assume le forme del musical, con i brani prog-beat dei Freedom a contrappuntare la flânerie della giovane donna e le sue continue fantasie erotiche.
ore 19.00
Diabolik (1968)
Regia: Maria Bava; soggetto: Angela e Luciana Giussani, Dino Maiuri, Adriano Baracco; sceneggiatura: D. Maiuri, A. Baracco; fotografia: Antonio Rinaldi; musica: Ennio Morricone; montaggio: Romana Fortini; interpreti: John Philip Law, Marisa Mell, Michel Piccoli, Adolfo Celi, Claudio Gora, Terry Thomas; origine: Italia/Francia; produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica, Marianne Productions; durata: 102′
Trasposizione cinematografica del celebre fumetto delle sorelle Giussani. L’ispettore Ginko dà la caccia a Diabolik che, con l’aiuto di Eva Kant, ha rubato dieci milioni di dollari. Bava non ne aveva un grande ricordo (anche perché i tempi di lavorazioni, particolarmente lunghi, erano inusuali per lui): «Per Diabolik avevo a disposizione pochissimi mezzi, l’ho finito con circa duecento milioni di spesa, un’inezia. Si figuri che ho dovuto arrangiarmi a inventare tutto con i trucchi perché la produzione non mi forniva niente, ma proprio niente. Ha visto la capanna di Diabolik in campagna, il suo rifugio, il laboratorio, l’autorimessa…? Le giuro, erano tutti modellini, fotografie che io ritagliavo al momento, improvvisando per rimediare allo squallore della scena e incollavo su un vetro davanti alla macchina da presa». Invece Dino De Laurentiis che produsse il film serba un grande ricordo del regista: «Diabolik era uno di quei film che senza gli effetti speciali non si sarebbe potuto realizzare. All’epoca non c’era la tecnologia che c’è oggi, per esempio la computer animation, che ci consente di fare quasi tutto. All’epoca era necessario usare la fantasia e scelsi Mario Bava perché aveva quest’eccezionale capacità nel realizzare gli effetti speciali. Era un grande professionista e riusciva a risolvere problemi complessi in chiave tecnica con un’agilità eccezionale».
mercoledì 5
ore 17.00
Lo scatenato (1967)
Regia: Franco Indovina; soggetto e sceneggiatura: Tonino Guerra, Luigi Malerba, F. Indovina; fotografia: Aldo Tonti; scenografia e costumi: Pier Luigi Pizzi; musica: Luis Enriquez Bacalov; montaggio: Marcello Malvestito; interpreti: Vittorio Gassman, Martha Hyer, Gila Golan, Massimo Serato, Claudio Gora, Jacques Herlin; origine: Italia; produzione: Fair Film; durata: 88′
Bob è un divo della pubblicità, ma un giorno un cagnolino gli fa un bisognino sui calzoni. È l’inizio di una persecuzione da parte degli animali sul povero malcapitato. Gli esiti saranno della vicenda saranno sempre più drammatici. «Lo scatenato è un film disgraziato, intanto perché fatto dal povero Indovina che poi morì, e poi Indovina – che era un bravo regista – era affetto da mania antonioniana, da scuola antonioniana. Questo, applicato a un film scatenatamente divertente e pazzo, con un bellissimo soggetto di Tonino Guerra, portò a un film troppo complicato che andò male. Ma l’idea era molto divertente e era un film moderno, perché Indovina aveva queste qualità […]. Lui aumentò troppo la pazzia irrazionale del soggetto e il pubblico non lo accettò; forse il film venne anche un po’ troppo presto» (Gassman).
ore 19.00
La morte ha fatto l’uovo (1968)
Regia: Giulio Questi; soggetto e sceneggiatura: G. Questi, Franco Arcalli; fotografia: Dario Di Palma; scenografia: Sergio Canevari; costumi: Marilù Carteny; musica: Bruno Maderna; montaggio: F. Arcalli; interpreti: Gina Lollobrigida, Jean-Louis Trintignant, Ewa Aulin, Jean Sobiesky, Renato Romano, Giulio Donnini; origine: Italia/Francia; produzione: Summa Cinematografica, Cine Azimut, Les Films Corona; durata: 100′
Marco e Anna, proprietari di un grande allevamento di polli, sono una coppia in crisi. L’arrivo della nipote turba l’uomo, ma la ragazza, meno innocente di quanto sembri, medita addirittura di uccidere i due zii ed ereditare tutto. «La grave meditazione di Questi trova riscontri quotidiani nel monopolio televisivo, nell’assurda concentrazione dei grandi capitali […] fenomeni influenti verso un risultato disastroso» (Napoli).
ore 21.00
Partner (1968)
Regia: Bernardo Bertolucci; soggetto e sceneggiatura: B. Bertolucci, Gianni Amico, ispirato a Il sosia di Fëdor Dostoevskij; fotografia: Ugo Piccone; scenografia: Francesco Tullio Altan; costumi: Nicoletta Sivieri; musica: Ennio Morricone; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Pierre Clementi, Tina Aumont, Stefania Sandrelli, Sergio Tofano, Giulio Cesare Castello, Antonio Maestri; origine: Italia; produzione: Red Film; durata: 108′
Giacobbe, un giovane professore che insegna teatro all’Accademia d’arte drammatica, incontra il suo doppio, che inizia a sostituirsi a lui per compiere azioni che non aveva mai avuto il coraggio di fare. «È un film malato, come sono malati molti dei film fatti nella seconda metà degli anni ’60 e nei primissimi anni ’70. Nessuno di noi, credo, aveva raggiunto un rapporto sereno con il proprio inconscio, allora» (Bertolucci). «Non è solo un film tecnicamente e stilisticamente nuovo, ma è addirittura un nuovo modo di fare il cinema. Un cinema che non coinvolge sentimentalmente lo spettatore, ma lo obbliga ad essere giudice: un cinema privato della sua forza di attrazione, ma pieno di una misteriosa e provocatoria forza di espulsione» (Pasolini). Brevi apparizioni di molti giovani registi teatrali e cinematografici (presenti o futuri): Giancarlo Nanni, Alessandro Cane, Giampaolo Capovilla, Umberto Silva, Salvatore Samperi, David Grieco.
giovedì 6
ore 17.00
La donna a una dimensione (1969)
Regia: Bruno Baratti; soggetto: B. Baratti, Massimo Mida; sceneggiatura: B. Baratti, Sergio Bazzini; scenografia: Gastone Carsetti; costumi: Marcel Escoffier; musica: Riz Ortolani; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Françoise Prévost, Massimo Farinelli, Gabriella Grimaldi, Isa Miranda, Rate Furlan, Olga Linka; origine: Italia; produzione: Inducine; durata: 98′
La contestazione capitalista di una ricca madre di famiglia che aderisce all’attentato ai danni della fabbrica del marito e fa opera di proselitismo sui due figli. Unico film di Baratti, fedele sceneggiatore di Gianni Puccini, che mette a nudo le incertezze della donna divisa fra doveri familiari e aspirazioni di libertà. Splendido cameo di Isa Miranda, mentre Buzzanca imperversa su uno schermo televisivo.
ore 19.00
Delitto al circolo del tennis (1969)
Regia: Franco Rossetti; soggetto e sceneggiatura: Ugo Guerra, F. Rossetti, Francesco Scardamaglia, liberamente ispirato al racconto omonimo di Alberto Moravia; fotografia: Vittorio Storaro; scenografia: Giuseppe Bassan, Massimo Vigneti, Dusan Jericevic; costumi: Gaia Romanini; musica: Peter L. Smith, Phil Chilton; montaggio: Alberto Gallitti; interpreti: Anna Gael, Roberto Bisacco, Angela Mc Donald, Chris Avram, Mario Guizzardi, Claudio Trionfi; origine: Italia-Jugoslavia; produzione: Daiano Film, Leone Film, Jadran Film; durata: 90′
Tre giovani contestatori tramano ai danni del padre di una di loro, ma dietro il gesto rivoluzionario si nasconde il dramma dei sentimenti. Film, nemmeno citato nei dizionari più in voga, che ebbe gravi problemi di distribuzione, ma assolutamente da recuperare per la perfetta costruzione narrativa e per la capacità di evidenziare la fragilità della protesta giovanile. È il film che rivela il talento figurativo di Vittorio Storaro fra echi pop e gli incubi di un abisso che incombe. In uno dei suoi ultimi articoli, uscito sul «Corriere della Sera» quattro giorni prima della morte, Pasolini rispose a Moravia che aveva assimilato il massacro del Circeo al suo racconto Delitto al circolo del tennis: «Anche Moravia dovrebbe accorgersi che il delitto al circolo di tennis, rispetto al delitto del Circeo dell’autunno 1975, è idillico: e nessuna reale relazione storica li unisce. Tra i due c’è un salto di qualità: salto di qualità che è dovuto all’enorme quantità. Un delitto che nel 1927 era espresso da un ambiente di élite, oggi è espresso da un ambiente di massa. II delitto gratuito “gidiano” è diventato un genere di consumo. Una scelta personale è diventata una coazione collettiva. Non è poco». Il film di Rossetti va rivisto anche alla luce della riflessione pasoliniana, proprio perché innesta il delitto del racconto di Moravia nell’ambiente (comunque elitario) della contestazione e lo trasforma in un oggetto di consumo da cui trarre profitto.
ore 21.00
Incontro moderato da Marco Giusti con Steve Della Casa, Pierpaolo De Sanctis, Corrado Farina, Miro Grisanti, Romolo Guerrieri, Giulio Questi, Ettore Rosboch
Nel corso dell’incontro sarà presentato il volume Pop Film Art a cura di Stefano Della Casa e Dario E. Viganò, con la collaborazione di Pierpaolo De Sanctis (Centro Sperimentale di Cinematografia, Cinecittà Luce, Edizioni Sabinae, 2012)
a seguire
Toh, è morta la nonna! (1969)
Regia: Mario Monicelli; soggetto: Luisa Montagnana; sceneggiatura: Luigi Malerba, L. Montagnana, Stefano Strucchi, M. Monicelli; fotografia: Luigi Kuveiller; scenografia e costumi: Paolo Tommasi; montaggio: Ruggero Mastroianni; musica: Piero Piccioni; interpreti:Carol André, Valentina Cortese, Riccardo Garrone, Ray Lovelock, Sergio Tofano, Sirena Adgemova; origine: Italia; produzione: Vides; durata: 87′
La vera protagonista del film è la villa di nonna Adelaide, al cui capezzale i parenti si riuniscono senza sapere di andare incontro allo stesso destino. Attorno ad essa, Monicelli sperimenta un tipo di visualità sopra le righe mai tentato altrove nella sua filmografia: scegli punti di vista e angolazione grandangolari per esaltare i volumi e le linee squadrate della casa, i suoi pieni e i suoi vuoti, le geometrie ortogonali, le pareti divisorie scorrevoli e a griglia che imprigionano i personaggi inquadrati attraverso di esse. Nonostante l’alto numero di cadaveri, i toni di questa commedia sono decisamente grotteschi, eccessivi, astratti, a cominciare dalle immagini che precedono i titoli: un carosello per promuovere l’insetticida Ghia, assolutamente pop per i colori, le sovrimpressioni grafiche e gli slogan linguistici.
Ingresso gratuito
venerdì 7
ore 17.00
Realtàromanzesca (1969)
Regia: Gianni Proia; soggetto: G. Proia; sceneggiatura: Giancarlo Fusco, G. Proia; fotografia: Sante Achilli; musica: Riz Ortolani; montaggio: Franco Arcalli; origine: Italia; produzione: Planete Film; durata: 113′
Film a episodi che ricostruisce fatti di cronaca dalle connotazioni più grottesche. Una donna che tenta il suicidio viene stuprata dal suo salvatore, un uomo in moto decapitato continua la sua corsa provocando una lunga catena di incidenti, una coppia resta “incastrata” in un lungo bacio per via di protesi dentarie… e una lunga serie di singolari eventi verrà ricostruita con uno sguardo spesso ironico e beffardo. Gianni Proia, già autore di Mondo di notte n.2 (1961) e Mondo di notte n.3(1963), realizzati come ideali “sequel” del più noto Mondo di notte (1959) di Luigi Vanzi, si cimenta in un docu-drama dai tratti difficili da definire. Lo sguardo di Proia, metabolizzata l’influenza di Mondo cane (1961) già espressa in Mondo di notte n.3, ne ricostruisce una versione più edulcorata in cui l’uomo contemporaneo e le sue vicende ne sono il perno. Intelligente esperimento filmico in cui il documentario assume una forma bizzarra e personale.
ore 19.00
Salomè (1972)
Regia: Carmelo Bene; soggetto e sceneggiatura: C. Bene, liberamente tratto da Salomè di Oscar Wilde; fotografia: Mario Masini; scene: C. Bene; interventi speciali: Gino Marotta; coordinamento musicale: C. Bene; montaggio: Mauro Contini; interpreti: C. Bene, Lydia Mancinelli, Alfiero Vincenti, Donyale Luna, Veruschka, Piero Vida; origine: Italia; produzione: Carmelo Bene; durata: 76′
«Salomè è tante altre cose. È l’impossibilità del martirio in un mondo presente, non più barbaro, ma esclusivamente stupido. Una specie di Salambô multirazziale, tecnologicamente avanti di almeno trent’anni. La scommessa del colore. Della luce. Salomè non colora più gli oggetti, li illumina. Anticipai di vent’anni la tecnica dei videoclip» (Bene).
ore 21.00
I cannibali (1969)
Regia: Liliana Cavani; soggetto: L. Cavani; sceneggiatura: L. Cavani, Italo Moscati, Fabrizio Onofri; fotografia: Giulio Albonico; scenografia e costumi: Ezio Frigerio; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Britt Ekland, Pierre Clementi, Tomas Milian, Delia Boccardo, Marino Masè, Francesco Leonetti; origine: Italia; produzione: Doria Cinematografica, San Marco Produzione; durata: 87′
«Liliana Cavani, partendo dalla leggenda, ha avuto un grande lampo, un’idea che davvero poteva essere il trampolino di lancio per una potentissima fantasia: uno spettacolo che riproponeva in termini attuali l’eterno problema del potere assoluto, che si fonda sulla negazione dei diritti umani e l’oppressione armata. […] Ebbene, la Cavani immagina che uno di questi governi tirannici proceda all’eliminazione generale e immediata di tutti gli oppositori, ordinando che si spari senza discriminazione né giudizio dove si trovano, nelle vie, nelle piazze, nei tram, nel metrò, prescrivendo insieme che nessuno, pena la morte, non soltanto rimuova, ma nemmeno tocchi quei cadaveri. L’azione del film si apre così su una delle più incredibili, bizzarre e insieme agghiaccianti successioni di immagini. […] Su un marciapiede qualcosa fa mucchio per terra, che, poi si capisce, è un corpo d’uomo disteso […]. Ma ecco più in là un altro. E subito un altro. E allora si capisce che sono cadaveri […]. Purtroppo la formidabile invenzione dell’inizio, quel panorama di immagini inesorabili nella loro atrocità, e stupende nella loro surreale evidenza, […] ha poi dei cedimenti durante il racconto. […] E tuttavia non c’è dubbio che, con tutti i suoi squilibri, I cannibali resta un film di grande interesse e novità» (Sacchi). Grandi prove di Clementi e Milian. «Volevo raccontare l’Antigone di Sofocle all’interno di un contesto attuale. L’idea di ispirarmi a quel testo, che è un canto sulla libertà della persona contro leggi imposte dalla dittatura dei gruppi di potere, inseriva inevitabilmente il film dentro la poetica della contestazione. Come anche per Francesco, la gran parte della forza de I cannibali risiede nel linguaggio. Doveva avere un sapore epico, non di cronaca, perché non era la storia di una ragazza ribelle che incontra un ragazzo strano… ecc. ecc. Era una specie di “racconto morale” con riferimento ad un’etica scritta nella testa di tutti gli esseri umani, se solo riescono a percepirla. Non era possibile la prosa del racconto morale» (Cavani).
sabato 8
ore 17.00
L’amica (1969)
Regia: Alberto Lattuada; soggetto: Giovanna Gagliardo, Mario Cecchi Gori;sceneggiatura: A. Lattuada, Alberto Silvestri, Franco Verucci; fotografia: Sante Achilli; architetto: Enrico Tovaglieri; costumi: Luciana Marinucci; musica:Luis Enríquez Bacalov; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Lisa Gastoni, Gabriele Ferzetti, Elsa Martinelli, Frank Wolff, Raymond Lovelock, Jean Sorel; origine: Italia; produzione: Fair Film; durata: 105′
«Una bella donna dell’alta società milanese, tradita dal marito, decide di inventarsi un amante. Ma la prima con cui si confida è proprio l’amante vera dell’uomo da lei scelto, che non perde quest’ulteriore occasione per spettegolare. La bella allora si vendicherà seducendo non solo l’amico dell’amica, ma anche il marito di lei e il figlio adolescente» (Farinotti).
ore 19.00
Il divorzio (1970)
Regia: Romolo Guerrieri; soggetto e sceneggiatura: Alberto Silvestri, Franco Verucci; fotografia: Sante Achilli; musica: Fred Bongusto; scenografia: Dario Micheli; costumi: Luca Sabatelli; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Vittorio Gassman, Anna Moffo, Nino Castelnuovo, Anita Ekberg, Hélène Ronée, Claudia Lange; origine: Italia; produzione: Fair Film; durata: 100′
«L’ingegnere Leonardo (Gassman), separatosi dalla moglie (Moffo), crede di ritrovare la libertà tra una hippie (Lange) e una collega assatanata (Ekberg), desiderosa (già nel lontano ’69) di esperienze scambiste: si ritroverà solo, e imparerà a fare i conti con la propria pochezza. La commedia all’italiana si guarda allo specchio e non riesce più neanche a pronunciare l’assoluzione, mentre la società sta cambiando e i giornali annunciano la battaglia parlamentare per il divorzio (la legge Fortuna-Baslini venne approvata nel novembre 1969). Abbastanza impietoso nel mettere alla berlina l’italiano falsamente liberato e finto-progressista, il film di Guerrieri […] tocca una malinconia e una disillusione sincere. Primo film della Cassini e di Momo (che interpreta il figlio di Gassman)» (Mereghetti).
ore 21.00
Scacco alla regina (1969)
Regia: Pasquale Festa Campanile; soggetto: dal romanzo omonimo di Renato Ghiotto; sceneggiatura: Tullio Pinelli, Brunello Rondi; fotografia: Roberto Gerardi; scenografia: Flavio Mogherini; costumi: Giulia Mafai; musica: Piero Piccioni; montaggio: Mario Morra; interpreti: Rosanna Schiaffino, Romolo Valli, Aldo Giuffrè, Gabriele Tinti, Haidèe Politoff, Daniela Surina; origine: Italia; produzione: Finarco; durata: 98′
Margaret Mevin, diva di successo, manifesta un carattere talmente venale e possessivo al punto di assumere una dama di compagnia, con la quale instaura un complesso rapporto tra padrona e schiava. «Favola moderna non disutile, e spunto di riflessioni interessanti anche dal punto di vista socio-politico, per indicare quanto il distacco dalla realtà, il rifiuto di vivere nel mondo, siano causa ed effetto di tirannia. […] Un film incerto fra il grottesco realistico e il metafisico, più impegnato – oggettivando l’azione narrata nel libro in prima persona – nel recuperare attraverso il cerimoniale sado-masochista il gusto ossessivo e narcisistico del romanzo anziché nell’analisi psicologica d’una sfida fra donne in ugual misura deliranti, ma spettacolarmente assai brillante grazie al lussuoso addobbo della villa che fa da cornice e alle toilette delle attrici. […] Pasquale Festa Campanile […] tuttavia conduce il gioco con la consueta vivacità, con quel sorrisino a fior di labbra che scorcia le ambizioni. L’immagine di Margaret, così prepotente e ghiotta di vivere, gli riesce bene, e quella di Silvia ha sensibili tocchi di colore […]. Bravi gli interpreti: Rosanna Schiaffino, bella e imperiosa nell’aggressivo personaggio di Margaret, e Haydée Politoff, tutta chiusa nell’insano piacere di Silvia presa d’amore di sé» (Grazzini).
domenica 9
ore 17.00
Sissignore (1968)
Regia: Ugo Tognazzi; soggetto: Tonino Guerra, Franco Indovina, Luigi Malerba; sceneggiatura T. Guerra, F. Indovina, L. Malerba, U. Tognazzi; fotografia: Giuseppe Ruzzolini; scenografia: Luciano Ricceri; costumi: Ezio Altieri; montaggio: Marcello Malvestito; musica: Berto Pisano; interpreti: Ugo Tognazzi, Maria Grazia Buccella, Gastone Moschin, Franco Fabrizi, Ferruccio De Ceresa, Franco Giacobini; origine: Italia; produzione: Fair Film; durata: 107′
Oscar è l’autista di un imprenditore che tutti chiamano l’Avvocato, che lo coinvolge nei suoi affari come prestanome in cambio di un trattamento di favore e di un lusso più apparente che realmente posseduto. Il cartello iniziale, composto da tante tessere con la scritta «Sì», dipinte e progressivamente moltiplicate con la tecnica del collage in una caleidoscopica reiterazione dello stesso monosillabo, sintetizza emblematicamente il servilismo del protagonista , pronto a tutto pur di accedere al mondo della modernità e del leisure.
ore 19.00
Dillinger è morto (1968)
Regia: Marco Ferreri; soggetto: M. Ferreri; sceneggiatura: M. Ferreri, Sergio Bazzini; fotografia: Mario Vulpiani; scenografia: Nicola Tamburro; musica: Teo Usuelli; montaggio: Mirella Mencio; interpreti: Michel Piccoli, Anita Pallemberg, Annie Girardot, Gino Lavagetto, Mario Jannilli, Carole André; origine: Italia; produzione: Pegaso Film; durata: 95′
L’assurdità del quotidiano e la fuga impossibile visti con l’ironia di Marco Ferreri. Tornato a casa dal lavoro, Glauco trova una pistola avvolta in un vecchio giornale… «L’averci dato un’immagine così lucida della nostra infelicità quotidiana, dove i rumori dei mezzi audiovisivi riempiono lo spazio lasciato vuoto dalle parole e dagli affetti, è un merito pari soltanto a quello acquistato da Ferreri nel descrivere come sbocci […] la rivolta del suo protagonista contro gli schemi razionali che imprigionano nell’assurdo la natura» (Grazzini).
ore 21.00
La serpe (1920)
Regia: Roberto Roberti; soggetto: Sandro Salvini, Vittorio Bianchi; sceneggiatura: V. Bianchi; fotografia: Alberto Carta; scenografia: Alfredo Manzi; interpreti: Francesca Bertini, S. Salvini, Emma Farnesi, V. Bianchi, Duilio Marrazzi, Raoul Maillard; origine: Italia; produzione: Caesar Film, Bertini Film, durata: 53′
«Classico melodramma messo a punto dalla solita équipe (regista, sceneggiatore, operatore, scenografo) che alla Caesar è addetta ad alimentare l’aura divistica di Francesca Bertini. Al personaggio di bellezza fatale che la “prima donna” della Casa sta costruendo film dopo film ben si addice l’immagine allegorica che è al centro di questo racconto, quello della donna-serpe, che prima incanta e poi divora le proprie vittime. Peccato che l’idea su cui si basa questa volta il racconto sia in sostanza un equivoco abbastanza improbabile: la sicurezza (acquisita come?, non si sa), che matura nelle mente di una ragazza dal nome fascinoso (Naia), ma tanto selvaggia da meritare il nomignolo di serpe, che il compositore Mario Sirchi sia colpevole della morte del padre di lei e della sorellastra Adonella. Il poveretto è invece innocente […]. Ci sono, insomma, tutti gli ingredienti tipici di un genere (il cinema in frac) che mostra ormai la corda, nella descrizione di personaggi, sentimenti e ambienti totalmente estranei alla realtà di tutti i giorni, con giovanotti nullafacenti, donne voluttuose e maturi ganimedi in marsina che ne accontentano ogni capriccio. Nelle mani del suo più fedele servitore, il regista Roberti, la “diva” spadroneggia dall’inizio alla fine in una serie di primi piani, che la colgono prima giovanetta immersa nei piaceri della campagna (dove il padre, che non l’ha riconosciuta, l’ha relegata), poi promossa improvvisamente dama del gran mondo, vestita con toilettes di sarti alla moda e valorizzata, nel suo eterno cipiglio, dai violenti effetti chiaroscurali e cromatici abilmente scelti per lei da Alberto Carta. Il personaggio, nel suo adeguarsi ai vari passaggi dell’artificiosa vicenda in cui è immesso (rimanendo fra le quinte nella prima parte, e irrompendo in primo piano solo nella seconda) sprigiona comunque una certa decadente suggestione» (Bernardini).
Copia restaurata dalla Cineteca Nazionale, presentata alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone 2011.
Accompagnamento musicale del M° Antonio Coppola
lunedì 10
chiuso
martedì 11
ore 17.00
L’assoluto naturale (1969)
Regia: Mauro Bolognini; soggetto: dal romanzo omonimo di Goffredo Parise; sceneggiatura: Ottavio Jemma, Vittorio Schiraldi, Mauro Bolognini; fotografia: Ennio Guarnieri; scenografia: Giorgio Bini; costumi: Vanni Castellani; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Laurence Harvey, Sylva Koscina, Isa Miranda, Felicity Mason, Amalia Carrara, Guido Mannari; origine: Italia; produzione: Tirrenia Studios; durata: 90′
«Parabola sulla crisi dei rapporti di coppia, in odor di ’68. Un Bolognini astratto, a contatto col kitsch del periodo e fortemente a tesi. Siamo dalle parti di Metti una sera a cena di Patroni Griffi o La donna invisibile di Paolo Spinola, entrambi coevi. Tutto si gioca nell’incontro un po’ forzato tra il lui della situazione (un tormentato Laurence Harvey), poeta inglese in vacanza in Italia che sogna l’amore come sentimento assoluto, unione di corpo e di spirito, e la lei del caso (una bellissima Sylva Koscina), attratta drasticamente e soltanto dal rapporto fisico, dall’amore carnale che prende e dà quando lei lo decide, spavalda donna-mantide in grado di anticipare tutto un clima femminista a venire, in modo forse ancor più radicale rispetto alla Dagmar Lassander di Femina Ridens (1969)» (De Sanctis).
ore 19.00
Con quale amore, con quanto amore (1970)
Regia: Pasquale Festa Campanile; soggetto: Ottavio Jemma, P. Festa Campanile; sceneggiatura: O. Jemma; fotografia: Franco Di Giacomo; musica: Riz Ortolani; montaggio: Sergio Montanari; interpreti: Catherine Spaak, Lou Castel, Claude Rich, Erika Blanc, Aldo Giuffré, Michel Bardinet; origine: Italia; produzione: Clesi Cinematografica; durata: 94′
Due amici architetti si contendono la bella Francesca, moglie di uno dei due. Lei, non amando più Andrea, va a vivere da Ernesto. I rapporti fra i tre mutano continuamente. Ispirato film di Festa Campanile, regista da riscoprire, che ricorda le opere di Sautet (in particolare È simpatico… ma gli romperei il muso): le affinità elettive, le baruffe sentimentali in ambienti bene, il pudore anche dei propri sentimenti. «[Il film] di Festa Campanile gira su un tema di casistica matrimonial-sessuale. Gira stavolta all’esterno, non in chiave di moralità coniugale, ma di farsa galante […]. Il gioco è condotto con sapiente mestiere e intelligente finezza […]. Il trio, ottimo e ben congegnato, composto da C. Spaak, Lou Castel e C. Rich che batte tutti, anche gli assenti» (Sacchi).
ore 21.00
5 bambole per la luna d’agosto (1970)
Regia: Mario Bava; soggetto e sceneggiatura: Mario Di Nardo; fotografia: Antonio Rinaldi; scenografia e costumi: Giulia Mafai; musica: Piero Umiliani; montaggio: M. Bava; interpreti: William Berger, Ira Fürstenberg, Edwige Fenech, Howard Ross, Hélène Ronée, Teodoro Corrà; origine: Italia; produzione: P.A.C. – Produzioni Atlas Cinematografica; durata: 87′
«Maestro del film dell’orrore, Mario Bava torna dopo un’assenza, lunghissima per gli appassionati del genere, con una vicenda che non ha nulla da invidiare ai film precedenti. Pochissime persone in un’isola deserta, e morti misteriose una dopo l’altra, come le ciliege, in un’atmosfera ricca d’incubo che ricorda quella dei “piccoli indiani” della Christie. Ma qui ci sarà anche un risvolto finale […]. Un film, insomma, che soddisfa in pieno gli amanti delle forti emozioni, e si fa apprezzare anche per effetti formali (il regista è stato, lo ricordiamo ai giovanissimi, un grande operatore)» (www.anica.it). «Mario Bava ricorre all’estetica del fumetto per dirigere una variazione sullo schema dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. E si diverte a mettere alla berlina l’egoismo umano, trattando i suoi personaggi come topi in trappola» (Mereghetti).