Cinema Trevi: La ragione e il disgusto. Il cinema illuminista di Nelo Risi.
29 Gennaio 2009 - 31 Gennaio 2009
Nelo Risi, 1920, è uno dei massimi poeti italiani del secondo Novecento. Laureato in Medicina come il fratello Dino, si avvicina al cinema alla fine degli anni ’40 con il cortometraggio Ritorno nella valle. L’amore per il documentario, così come l’attenzione pignola e attenta al dato reale lo accompagnano per tutta la vita. Ma il regista-poeta, accanto ai cosiddetti lavori d’impegno sociale, realizza per conto della Olivetti alla fine degli anni ’50 dei documentari d’animazione in anticipo sui tempi per un’estetica pop che farà scuola. Il suo esordio nel cosiddetto film di finzione avviene nel 1961 con l’episodio Ragazze madri del zavattiniano Le italiane e l’amore. Il sodalizio artistico e sentimentale con la scrittrice, poetessa e a sua volta cineasta Edith Bruck lo porta a realizzare, subito dopo aver diretto l’interessante e appassionante film televisivo La strada più lunga, il film d’esordio, lo struggente e toccante Andremo in città. Così Risi descrive quell’esperienza: «Un modo pacificato di parlare dei disastri della guerra, sentiti attraverso lo schermo della favola. E qui mi è venuta incontro Edith Bruck [autrice del romanzo omonimo e sceneggiatrice del film], col suo narrare ilare e doloroso, con un’innocenza che noi latini sembriamo avere perduta». A questo film ne seguiranno diversi altri che segnano, come il suo percorso poetico, tappe importanti di un modo personalissimo e originale di fare arte all’insegna di un illuminismo tutto lombardo e da un disgusto sempre crescente per la cosiddetta società dei consumi: da Diario di una schizofrenica, raro e riuscito film psicoanalitico girato in Italia, al ritratto femminile di una donna in crisi in Ondata di calore e all’omaggio da poeta alla poesia di Rimbaud con Una stagione all’inferno, fino al manifesto manzoniano sprovvisto di Provvidenza La colonna infame.
Si è voluto rendere omaggio a Edith Bruck con la proiezione del suo doloroso e lirico Improvviso, dove ci è parso di vedere una continuità stilistica una e tematica affine a Risi: la passione, il dissidio, la perdita, come cause di improvvise trasformazioni della persona e l’attenzione verso gli ultimi, i perdenti, o dimenticati dalla Storia. L’uscita del suo nuovo lavoro cinematografico sull’incontro di due grandi vecchi della poesia (Risi stesso e Andrea Zanzotto) Possibili rapporti. Due poeti, due voci e la pubblicazione di una nuova raccolta poetica Né il giorno né l’ora (Mondadori) testimoniano una vitalità del tutto invidiabile. Gran parte delle citazioni, così come parte del titolo della personale La ragione e il disgusto, sono tratti dall’unica monografia dedicata al cinema del regista: Luciano De Giusti (a cura di), Nelo Risi. Il cinema, la poesia (Antennacinema, Conegliano, 1988). Di se stesso e sul suo essere poeta e cineasta scrive «A vent’anni un uomo di grande gusto, l’editore Giovanni Scheiwiller, mi accolse tra i suoi autori stampando un libriccino dal titolo Le opere e i giorni che risentiva fortemente della lettura di Saint-John Perse più che di Esiodo. Fu il mio debutto letterario, non rilevato da nessuno. Il cinema venne casualmente, nell’immediato dopoguerra quando ogni giovane era alla ricerca di se stesso oltreché di un lavoro. Due documentaristi di fama (l’olandese J. Ferno e l’inglese americanizzato R. Leacock) vennero in Italia per realizzare un cortometraggio sulla valle del Po che testimoniasse dei disastri della guerra. Mi unii a loro rinunciando definitivamente alla carriera di medico, altro versante familiare già abbandonato da mio fratello Dino. […] Già, la poesia e il cinema su una formazione grosso modo scientifica; avevo almeno il vantaggio di non finire professore di Lettere in qualche liceo della Repubblica. Poi magari ti viene il rimpianto di non aver studiato, chessò, filologia romanza alla Normale di Pisa… Allora ti chiudi in casa con la finestra che dà sul muro di fronte a organizzare un libro di versi che hai incasellato mentalmente per mesi, oppure traduci l’Edipo Re sulla scorta di un “bigino” ritrovato in un angolo basso della libreria. Tutto questo può sembrare uno svago da ricchi, con la poesia non si campa, così cerco di continuare il mio discorso sotto altra forma: per anni ho operato nel campo del documentario e delle inchieste televisive prediligendo “il reale”, poi lavorando su “l’immaginario” nei film di finzione scoprendo che il cinema non è poi così lontano dalla poesia, un’immagine e poi un’altra e un’altra ancora… un verso e poi un verso e un altro ancora. A volte le regole del cinema facilitano la scrittura, e viceversa».
giovedì 29
ore 16.45
Au dessus de la vallée (Ritorno nella valle, 1949)
Regia: Nelo Risi; sceneggiatura: Stephen L. James; fotografia: Jacques Letellier; musica: Maurice Thiriet; montaggio: Francois Diat; origine: Francia; produzione: John Ferno; durata: 15′; v. o. franc.
«Nella Grecia aspra, desolata e distrutta, all’indomani della guerra, un gruppo di famiglie fa ritorno al villaggio di montagna abbandonato durante il conflitto. Dopo un tratto di percorso in camion, il viaggio prosegue coi muli. Con il loro arrivo il villaggio pian piano torna a vivere. I bambini crescono. Imparano a leggere e a scrivere in una scuola di fortuna allestita all’aperto, nella piazza del paese. La ricostruzione si conclude nell’allegria di una festa paesana. […] In questo folgorante inizio cinematografico di Risi si sente la lezione dei grandi maestri del documentario. Il taglio dell’immagine, il modo di comporla e montarla sono di forte impatto visivo. Una sola inquadratura, dalla quale si sprigiona una inedita forza poetica, può valere da esempio: un fuoco arde, in primo piano, sulla spiaggia, il mare è sullo sfondo e d’improvviso entra in campo, tra il fuoco e il mare, come un cuneo, un gregge di pecore. Composto solo successivamente nella forma in cui lo conosciamo, il cortometraggio è nato da uno dei tanti frammenti di realtà sociale che, all’indomani del secondo conflitto mondiale, Risi andava documentando come reporter operante nell’equipe di Ferno, con sede a Parigi. È in tale veste che compie una serie di viaggi e soggiorni, con l’occhio dentro l’obbiettivo, tutto teso a catturare le immagini delle diverse situazioni sociali in Europa e nel Nord Africa» (De Giusti).
a seguire
La strada più lunga (1965)
Regia: Nelo Risi; soggetto: da Il voltagabbana di Davide Lajolo; sceneggiatura: Fabio Carpi, N. Risi; musica: Daniele Paris; interpreti: Gian Maria Volonté, Graziella Galvani, Augusto Mastrantoni, Giampiero Albertini, Ernesto Colli, Carlo Enrici; origine: Italia; produzione: Rai; durata: 90′
«Michele ha combattuto in Etiopia, Spagna, Albania, Grecia. Dopo l’8 settembre torna a casa: è sempre stato fascista, ha creduto nelle cause in cui ha lottato, ma ora è stanco. La guerra tuttavia non è finita, anzi si è inasprita. I suoi camerati lo vogliono ancora con loro, ma questa repubblica sociale, un tempo vagheggiata, che ora giunge imposta dalle armi delle S.S. non lo convince. Michele rifiuta di tornare con i fascisti, ma la situazione non permette di restare neutrali. È giunto il momento delle scelte. […] Fu la televisione che diede a Risi l’opportunità di realizzare il primo lungometraggio a soggetto. Per celebrare il ventennale della Resistenza, La Capria aveva ideato un ciclo, rimasto incompiuto, di “originali televisivi” o sceneggiati (come allora si chiamavano), tratti da racconti e romanzi di scrittori italiani, sulla lotta di liberazione. Risi portò sullo schermo Il voltaggabana di Davide Lajolo: nacque così La strada più lunga (1965)» (De Giusti). «Seppur nel limitativo arco di un racconto su commissione […] Risi ha nondimeno sviluppato con dolorosa passione il tema centrale rimasto integro nel passaggio dalla pagina al piccolo schermo: il corruccio rabbioso del protagonista che non si vuole arrendere alla evidenza dello sfacelo completo di una ideologia in cui aveva onestamente creduto e, poi, la lenta contrastata decisione di “passare” razionalmente dall’altra parte. Fidando anche in un Volontè misurato ed estraneo a modi tradizionali, Risi ha saputo dare giusta rilevanza ad un personaggio che se è protagonista di una vicenda “privata” è però insieme coro della stessa e, quindi, collegamento di un fitto intreccio di appunti e sottolineature tendenti opportunamente a dilatare gli eventi oltre il caso personale per un più concreto e responsabile dialogo con la grande massa dei telespettatori» (Bertieri).
Per gentile concessione di Rai Teche – ingresso gratuito
ore 19.00
Incontro con Nelo Risi, Edith Bruck e Sergio Toffetti
a seguire
Possibili rapporti. Due poeti, due voci (2008)
Regia: Nelo Risi; soggetto e sceneggiatura: N. Risi; fotografia: Duccio Cimatti; musica: Marco Valabrega; interpreti: Andrea Zanzotto e N. Risi; origine: Italia; produzione: Gregorio Paonessa per Vivo Film; durata: 56′
Nelo Risi torna alla regia dopo quasi vent’anni per incontrare il maggior poeta italiano contemporaneo: Andrea Zanzotto. Al centro del film è il personalissimo e intimo dialogo di due grandi vecchi della cultura europea. Il paesaggio è Pieve di Soligo, in Veneto, il luogo dove Zanzotto è nato e ha trascorso tutta la vita. È l’incontro di due personalità molto diverse, il poeta ermetico e ritirato – Zanzotto, il viaggiatore, che ha sempre sposato una scrittura concreta, legata alle cose del mondo – Risi: i due si conoscono da sempre, ma si sono frequentati poco hanno scelto di incontrarsi oggi, scoprendosi più vicini di quanto loro stessi avessero immaginato. Il loro incontro assume all’inizio quasi i tratti di uno scontro. Zanzotto è silenzioso, come assorto… Risi si mette in gioco, si scopre, rischia, cerca di stanare il suo amico e rivale da quella ironia sorniona dietro cui si protegge. Poi la conversazione si fa più fitta. Risi e Zanzotto hanno attraversato con le loro vite quasi un secolo, sono stati testimoni e attori di un mondo che si è completamente trasformato, hanno vissuto crisi e svolte ideologiche. Guardandosi in faccia, passeggiando insieme, esprimono le reciproche visioni del mondo dialogando sulla poesia, sull’arte, sul cinema, sulla memoria del passato, sulla morte, ma soprattutto sul futuro e sulla vita. Possibili rapporti. Due poeti, due voci è stato presentato all’ultima edizione del Film Festival Locarno.
Per gentile concessione di Vivo Film – Ingresso gratuito
a seguire
Sud come Nord (1957)
Regia: Nelo Risi; fotografia: Carlo Ventimiglia; musica: Franco Potenza; commento: Muzio Alemanni Mazzocchi; origine: Italia; produzione: Romor Film; durata: 15′
Descrizione dello stabilimento della Olivetti a Pozzuoli. Grazie all’insediamento della fabbrica piemontese in quell’area disagiata del meridione si realizzò una bonifica del territorio con un conseguente miglioramento delle condizioni di vita della popolazione locale.
Ingresso gratuito
a seguire
Andremo in città (1966)
Regia: Nelo Risi; soggetto: dal romanzo omonimo di Edith Bruck; adattamento: Fabio Carpi, Vasco Pratolini; sceneggiatura: E. Bruck, N. Risi, Jerzy Stawinsky, Cesare Zavattini; fotografia: Tonino Delli Colli; musica: Ivan Vandor; montaggio: Giacinto Solito; interpreti: Geraldine Chaplin, Nino Castelnuovo, il piccolo Federico, Aca Gavric, Stefania Careddu, Giovanni Scratuglia, Milan Panic; origine: Italia/Jugoslavia; produzione: A.I.C.A. Cinematografica – Associazione Internazionale Cinema d’Arte, Romor Film, Avala Film; durata: 103′
«Tratto dal racconto omonimo di Edith Bruck, il film racconta i disastri della guerra e la persecuzione razziale durante l’ultimo conflitto mondiale in un paese dell’Est europeo. Ma il vero tema non è dato da questi materiali storici. Essi costituiscono l’orizzonte entro il quale il film si muove, non il suo fuoco. L’occhio del racconto si fissa piuttosto sulle conseguenze di quel contesto in una famiglia ebraica. Famiglia già smembrata nella quale mancano la madre, morta, e il padre, deportato. La spina dorsale del racconto è la relazione tra la sorella maggiore, Lenka, e Misha, il fratellino cieco di cui si prende cura in sostituzione della madre. La ragazza sfrutta la sua menomazione fisiologica per proteggerlo, per salvaguardarlo dagli orrori della guerra, per non privarlo anzitempo dell’infanzia» (De Giusti). «Sia l’Ungheria che la Polonia dopo vari sopraluoghi hanno rifiutato la storia del bambino ebreo cieco perché a quei paesi dava fastidio, a quell’epoca, toccare il tema dell’ebraismo. Le deportazioni di milioni di persone nei campi di concentramento e sterminio tedeschi hanno lasciato un senso di colpa nei dirigenti comunisti di allora che non volevano toccare quei temi troppo scottanti. […] Noi pensavamo di poter trovare un terreno fertile proprio là dove erano accadute le atrocità, questo enorme olocausto, invece abbiamo trovato la strada sbarrata politicamente. Alla fine l’unico terreno neutro possibile era la Yugoslavia di Tito, che infatti ci ha aperto le porte» (Risi).
Ingresso gratuito
venerdì 30
ore 17.00
Una stagione all’inferno (1971)
Regia: Nelo Risi; soggetto: Giovanna Gagliardo; sceneggiatura: Raffaele La Capria, N. Risi; fotografia: Aldo Scavarda; musica: Maurice Jarre; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Terence Stamp, Jean-Claude Brialy, Florinda Bolkan, Pier Paolo Capponi, Nike Arrighi, Teodoro Corrà; origine: Italia; produzione: Difne Cinematografica, Anginex; durata: 128′
«Mi è stato proposto su soggetto di Giovanna Gagliardo. Ho chiamato poi Raffaele La Capria e abbiamo lavorato assieme alla sceneggiatura, trovando un produttore disponibile a mettere in piedi un film che per la prima volta mi poteva dare la possibilità di avere grossi mezzi, tanto è vero che poi mi è stato rimproverato che il film era troppo ricco. […] Rimbaud era un tema che mi stava a cuore. La scommessa fino all’impossibile da parte di un uomo che era stato un genio a 18 anni e che, a un certo punto, butta via la poesia (per la quale tutto sommato io vivo) e si mette a fare il trafficante d’armi» (Risi). «Di questa burrasca romantica, che avrebbe potuto ispirare un film gremito di luoghi comuni sui poeti maledetti, Nelo Risi ci dà […] una versione assai nitida, dove, raccontando in parallelo le vicende della prima gioventù di Rimbaud, trascorsa in Europa (dall’adolescenza riottosa ai litigi con Verlaine) e quelle vissute in Africa, alle prese con i ras e gli speculatori, descrive con occhio asciutto la contraddittoria e misteriosa personalità del poeta e dell’avventuriero, diviso fra rivolta permanente e il sogno d’una famiglia, e la colloca con brevi tratti sullo sfondo d’un’epoca inquieta in cui s’annuncia il crollo della civiltà borghese e l’avvento di nuovi valori» (Grazzini).
Vietato ai minori di anni 14
ore 19.15
Elea classe 9000 (1960)
Regia: Nelo Risi; soggetto e sceneggiatura: Muzio Alemanni Mazzocchi; fotografia: Giulio Giannini; musica: Luciano Berio; ideazione grafica: Giovanni Pintori; animazione: Gianni Polidori, Giulio Giannini; origine: Italia; produzione: Olivetti; durata: 32′
Il documentario illustra le caratteristiche generali dei grandi elaboratori elettronici attraverso una breve storia dei procedimenti di calcolo del passato. Vengono descritte le peculiarità costruttive dell’Elea classe 9000 seguendone le fasi di realizzazione: dal progetto alla costruzione. Alcuni esempi illustrano i campi di applicazione del calcolatore e i vantaggi offerti da quest’ultimo. La voce off esprime con fermezza il concetto chiave del film: «Gli elaboratori elettronici non sono pensati per sostituire l’uomo ma per promuovere un miglioramento delle sue condizioni lavorative liberandolo dalla fatica e dalla ripetitività delle azioni».
a seguire
Ondata di calore(1970)
Regia: Nelo Risi; soggetto: dal romanzo omonimo di Dana Moseley; sceneggiatura: N. Risi, Roger Mauge, Anna Gobbi; fotografia: Giulio Albonico; musica: Peppino De Luca, Carlo Pes; montaggio: Gian Maria Messeri; interpreti: Jean Seberg, Luigi Pistilli, Lilia Nguyen, Paolo Modugno, Gianni Belfiore, Franco Acampora; origine: Italia/Francia; produzione: Filmes Cinematografica, Les Films Pommereu, Les Films Corona; durata: 91′
Ritratto di una donna americana in crisi esistenziale e coniugale con il marito architetto, con finale giallo. Sullo sfondo, la città marocchina di Agadir, ricostruita dopo il terribile terremoto del 1961. Joyce, sola nella sua casa, oppressa dal caldo afoso portato da una violenta tempesta di sabbia, è ossessionata dalle improvvise apparizioni di Alì, il giovane amico del marito. «La storia prende spunto da un racconto di Dana Moseley ma ce ne siamo distaccati. Praticamente io e Anna Gobbi l’abbiamo reinventata spostandola ad Agadir, abbiamo inventato questa omosessualità del marito, che non si vede mai, se non in fotografia. Soltanto alla fine si scopre che la donna lo ha ammazzato all’inizio del film. Film severo, difficile, quasi un monologo pochissimo parlato. È una sorta di puzzle, di mosaico costruito, devo dire, con eleganza, con una certa abilità, che però non ha toccato il pubblico. Eppure per la prima volta nella mia vita godevo di una buona distribuzione, la Titanus, ma questo non mi ha aiutato affatto» (Risi). «Fenomelogia dello straniamento, e ipotesi dell’impossibile redenzione che […] Nelo Risi è riuscito a sottrarre al pericolo della divulgazione e delle metafore uggiose per chiuderle nel cerchio di ferro delle “conquiste” personali» (Elio Maraone).
Vietato ai minori di anni 14
ore 21.30
Diario di una schizofrenica (1968)
Regia: Nelo Risi; soggetto e sceneggiatura: Fabio Carpi, N. Risi, tratto da Journal d’une schizophrènie di Marguerite Andrée Sechehaye; consulenza scientifica: Franco Fornari; fotografia: Giulio Albonico; interpreti: Umberto Raho, Manlio Busoni, Gabriella Mulachiè, Giuseppe Liuzzi, Marija Tocinowsky; origine: Italia; produzione: IDI cinematografica; durata: 107′
«Opera seconda del regista e poeta Nelo Risi […], Diario di una schizofrenica è ispirato a un memoriale scientifico assai noto in Francia scritto dalla psicologa svizzera Marguerite Andrée Séchéhaye. Sceneggiato da Risi con la collaborazione di Fabio Carpi e la consulenza scientifica di Franco Fornari, il film fu interpretato nel ruolo della protagonista Anna da un’attrice francese agli esordi, Ghislaine D’Orsay, e venne apprezzato da pubblico e critica in occasione della sua anteprima alla mostra di Venezia del 1968. Selezionato per l’Oscar, non fu poi accettato per cavilli burocratici, con il pretesto che non era uscito nelle sale, e fu sostituito da La ragazza con la pistola di Monicelli. Nel 1970 ha ottenuto un Nastro d’Argento per la sceneggiatura» (Maria Coletti). «La storia è centrata su tre donne: una madre ancora giovane, piacente, egoista e fatua, che ha respinto la figlia come un ingombro quando è venuta al mondo […] e non ha voluto o potuto allattarla; una figlia che sin dalla primissima infanzia soffre del mancato amore materno […] fino al punto che perderà la ragione; un’analista, donna sulla cinquantina dotata di una straordinaria carità umana, che lotta in due direzioni: contro la famiglia e contro il mondo accademico che non crede alla bontà del suo esperimento. Tre personalità distinte: l’isterica, la dissociata, la scientifica. Un triangolo di odio – delirio – amore, direbbe il soffietto pubblicitario. Un film non psicologico ma analitico, con un lato sperimentale da non sottovalutare» (Risi). Presentato in occasione della retrospettiva dedicata nel 1998 al ventennale del ’68 alla mostra di Venezia. Dai negativi originali conservati della Cineteca Nazionale sono stati stampati una check-print e una copia corretta. Sempre dal negativo sono stati stampati un interpositivo e un positivo colonna quali matrici di preservazione. Le lavorazioni sono state eseguite presso il laboratorio di Cinecittà Studios.
sabato 31
ore 16.00
Le città del mondo (1975)
Regia: Nelo Risi; soggetto: tratto da Le città del mondo di Elio Vittorini; sceneggiatura: Fabio Carpi, N. Risi, Elio Vittorini; fotografia: Sergio Martinelli; musica: Filippo Trecca; montaggio: Gian Maria Messeri; interpreti: Francisco Rabal, Roberto Tartavini, Valeria Fabrizi, Paola Tanziani, Dora Calindri, Vincenzo Ferro; origine: Italia; produzione: Filmes, Rai; durata: 90′
«Matteo e Nardo, padre e figlio, partono diretti alla “città perfetta e ideale” dove sia possibile trovare lavoro e avvenire per il ragazzo; nella sua fantasia, il ciabattino scambia paesetti dell’interno per la capitale dell’isola e una modesta locanda per un lussuoso albergo, vanamente contraddetto dal più raziocinante figlio. I due s’imbattono poi in una piacente vedova che aiutano nel suo lavoro di venditrice ambulante; in cambio ricevono una notte d’amore il padre, e vitto, alloggio e lavoro il figlio. Ma questa sistemazione non garba a Nardo che dopo un po’ ritorna, in tempo per trovare la casa arricchita dall’arrivo di un nuovo fratellino che impoverirà ulteriormente il bilancio familiare. Da qui la necessità di un altro viaggio di Matteo e Nardo alla ricerca della sperata sistemazione» (De Giusti). «Mi interessava il lato fantastico di Vittorini, molto vicino alle tematiche della poesia. Un povero ciabattino che farnetica, parlando di una Grecia che non esiste più in una Sicilia di enorme povertà, raccontando delle splendide favole menzognere ad un bimbetto che è molto più concreto e realista di lui, trovo che sia un tema suggestivo. La realtà di miseria è riscattata dalla fantasia quasi allucinata di un cantastorie ideale. È un film donchisciottesco, una parentesi lirica che io apprezzo e che mi è piaciuto fare anche perché Rabal ne ha dato un’interpretazione molto convincente» (Risi).
Per gentile concessione di Rai Teche – ingresso gratuito
ore 17.40
La colonna infame (1972)
Regia: Nelo Risi; soggetto: N. Risi dall’opera omonima di Alessandro Manzoni; sceneggiatura: Vasco Pratolini, N. Risi; fotografia: Giulio Albonico; musica: Giorgio Gaslini; montaggio: Gian Maria Messeri; interpreti: Helmut Berger, Vittorio Caprioli, Francisco Rabal, Lucia Bosè, Pier Luigi Aprà, Salvo Randone; origine: Italia; produzione: Filmes; durata: 102′
«Io ho sempre avuto, da buon lombardo, un amore critico per il Manzoni. La colonna infame soprattutto, lo trovo un testo straordinario, testo nero, difficile dal punto di vista della lettura, che tocca però un tema ancora oggi attuale. […] Era impossibile ritrovare a Milano la Milano del ‘600. La soluzione adottata dall’architetto Bassan è stata quella di ricostruire idealmente a Cinecittà una città appestata dove l’interno era fatto ad imbuto, un inferno metallico e circolare che scende giù fino alle celle dei tormenti: interpreta il testo manzoniano come la rappresentazione dell’inferno di una Milano contagiata dalla peste. La Milano esteriore non era altro che una specie di palcoscenico ideale di sabbia, di strutture e di casupole mezze diroccate dove si sentiva appena adombrata la presenza del Duomo in costruzione. I costumi di Vera Marzot sono stati molto rigorosi. Gaslini, musicista, mi ha rielaborato il tema verdiano della Messa di Requiem e quindi il film è, in tutti gli aspetti, molto coerente. Figurativamente ho avuto in mente Caravaggio. Ci sono delle sciabolate di luce, molto taglienti, che vengono dal contrasto di luci e ombre proprio di Caravaggio e che il mio direttore della fotografia, Giulio Albonico, ha saputo rifare […]. È un film di denuncia, critico, e come tale non di facile lettura. È come un teorema che viene sviluppato fino in fondo, senza concessioni e senza speranza. Nella Colonna infame non c’è la Provvidenza come nei Promessi sposi. Qui non c’è salvezza, e questo va contro tutte le regole dello spettacolo. Un film nero e quindi poco appetibile. È come Andremo in città, dove si incomincia con la deportazione degli zingari, poi c’è la deportazione degli ebrei, poi quella del bambino cieco, un processo che non lascia salvezza» (Risi).
Vietato ai minori di anni 14
ore 19.30
Improvviso (1979)
Regia: Edith Bruck; soggetto e sceneggiatura: E. Bruck; fotografia: Nino [Sebastiano] Celeste; musica: Luis Enriquez Bacalov; montaggio: Carlo Valerio; interpreti: Andréa Ferreol, Valeria Moriconi, Delia Boccardo, Giacomo Rosselli, Biagio Pelligra, Olivia Casadei; origine: Italia; produzione: Pont Royal Film, Rai Radiotelevisione Italiana; durata: 100′
«All’esordio nella regia cinematografica, Edith Bruck porta sullo schermo il senso umanissimo del dolore e della pietà che una tragica adolescenza le ha procurato e che essa viene esprimendo in romanzi, racconti, poesie di buona qualità letteraria. Il protagonista di Improvviso è Michele, un timido e solitario sedicenne dell’Aquila che studia violoncello. Cresciuto senza padre, in casa è come assediato dall’amore morboso della mamma e della zia, i compagni di scuola lo deridono, il mondo gli fa paura. Michele è vittima di uno scandalo familiare (suo padre doveva sposare la zia), ma anche le donne che ha vicino sono state umiliate dalla vita: cacciate di casa, le due sorelle rimasero sole, e ora riversano su di lui, l’una sarta, l’altra infermiera, il loro affetto geloso. Ovunque guardi, per le strade e in Tv, il ragazzo sente minacce. Anch’essa sacrificata dalla famiglia, la maestra di musica lo provoca, una ragazzina lo intimorisce, tutt’intorno gli si muove un’umanità stralunata e violenta. […] Improvviso è un esordio da tener d’occhio. Compiendo il ritratto spaurito e impacciato di Michele, e cavando il succo da quanto lo circonda, Edith Bruck conduce un’analisi desolata, ma non tutta chiusa alla speranza, degli errori prodotti dai pregiudizi e dalle frustrazioni. […] Anziché esaurirsi nell’aneddoto drammatico e nello spunto sociologico, il film è perciò un’amara riflessione sugli strazi profondi della storia e le offese ai disarmati, e un richiamo a meditare sulla cattiva educazione sentimentale che abbiamo avuto e seguitiamo a dare. […] Lo stile della Bruck è, per la sobrietà dei tocchi e i toni dimessi, di una semplicità ammirevole, e perciò quasi non si avverte. Guidato da uno sguardo asciutto che penetra le cose e le loro vibrazioni segrete, ne coglie le tenerissime solitudini e gli ingorghi più tragici, ma anche certi aspetti grotteschi. Il realismo della ungherese Edith Bruck non è di marca italiana, e perciò sbaglia chi confonde il film con la nostra produzione corrente. […] Benché l’affollamento e il frastuono di Venezia non abbiano forse giovato a Improvviso (un altro connubio fra Rai e Italnoleggio), ecco un film serio, malinconico perché vero, nato dalla sincerità di un’autrice appartata che non mercifica la sofferenza. Lo interpretano l’esordiente Giacomo Rosselli, col lodevole proposito di trasmetterci i penosi impacci di Michele, e Valeria Moriconi e Andréa Ferréol con una perizia professionale che dà i debiti chiaroscuri alle figure delle due sorelle» (Grazzini).
ore 21.15
La memoria del futuro (1960)
Regia: Nelo Risi; soggetto: Muzio Alemanni Mazzocchi; fotografia: Giulio Giannini; musica: Luciano Berio; ideazione grafica: Giovanni Piri; animazione: G. Giannini, Gianni Polidori; origine: Italia; produzione: Olivetti; durata: 13′
Nelle città moderne è necessario razionalizzare i servizi e programmare le singole attività per migliorare la qualità di vita. Il documentario, con l’ausilio dell’animazione creata da Polidori e Giannini, racconta brevemente la storia dei calcolatori. Viene descritto l’utilizzo della valvola e del transistor nei calcolatori moderni illustrandone le componenti. L’evoluzione del calcolatore deve però essere supportata dalla scienza e da una continua ricerca. Il filmato si conclude con il seguente enunciato: «L’elettronica è una tecnologia che libera l’uomo dai lavori meccanici e ripetitivi».
a seguire
Un amore di donna (1988)
Regia: Nelo Risi; soggetto: Franco Levati; sceneggiatura: Alberto e Gianni Buscaglia, Antonio Porta, N. Risi; fotografia: Lamberto Caimi; musica: Morris Albert; montaggio: Alfredo Muschietti; interpreti: Laura Morante, Bruno Ganz, Claudine Auger, Ivan Desny, Cinzia De Ponti, Gabriele Villa; origine: Italia/Germania; produzione: Film Leading, Rai, Taurus Film; durata: 102′
Gabriella è una giovane donna che vive separata dal marito, un anziano avvocato che lei ha sposato a diciott’anni. Il suo rapporto con la madre è molto tormentato. A una festa Gabriella conosce Franco Bassani, un pilota collaudatore di aerei, afflitto da una malinconia di un’avanzata maturità. L’attrazione reciproca si trasforma subito in amore, un sentimento che però non è libero di crescere sia per i grovigli affettivi del passato della donna, sia perché il marito la tiene legata a sé col ricatto economico: madre e figlia dipendono da lui. «È un film, questo sì, d’occasione, che mi è stato offerto. Non sarebbe nelle mie tematiche, ma ho scelto due attori in cui credo, che sono Laura Morante e Bruno Ganz, e ho portato una certa problematica a me cara all’interno di una storia che poteva essere fatta da un altro regista. Quindi tutto sommato è anche un film che mi appartiene per dei risvolti che mi sono affini: il film racconta la storia della crisi di una donna. […] Io ho un grande interesse per la figura femminile. La figura femminile problematica mi intriga e mi piace, non la donna di commedia, ma la donna che ha dei problemi, ed è in crisi. Qui, ancora una volta, c’è una donna in crisi, con un matrimonio andato male, che cerca l’amore ma quando lo trova è piena di ripensamenti. Una vicenda che lascia adombrare un lieto fine piuttosto incerto» (Risi).