Musicisti dello schermo: Carlo Rustichelli
21 Novembre 2012 - 21 Novembre 2012
In Carlo Rustichelli non erano apprezzabili tracce di quell’inquietudine che affliggeva alcuni suoi colleghi, avviliti dal corso della loro parabola di musicisti prestati al cinema; non è facile dire se la sua attività sui set lo abbia pienamente realizzato, o se la deviazione dall’itinerario musicale tradizionale gli abbia lasciato ambizioni inappagate; di certo però in lui non c’era evidenza della schizofrenia dell’artista incompreso, tradito da un “mestiere” che aveva spinto nell’angolo attività “d’arte” idealizzate. E anzi per lui il legame di cuginanza, se non discendenza diretta, tra melodramma e schermo – cui altri della sua generazione avevano fatto appello, salvo ricredersi strada facendo – manteneva attendibilità e valore, al punto di fargli affermare che libretto d’opera e sceneggiatura avevano più d’una affinità, che Puccini, Cilea o Giordano sarebbero stati eccellenti musicisti per lo schermo e che alcuni suoi colleghi dello schermo non avrebbero sfigurato nel teatro musicale. Lui stesso vi si era appassionatamente misurato con un’impegnativa opera sin qui mai rappresentata, Savonarola, che presto o tardi ci si augura possa infine approdare su un palcoscenico. «Per noi musicisti è la fortuna che gioca…», gli piaceva ripetere, quasi a sancire implicitamente una avvenuta pacificazione col proprio percorso musicale. E comunque in più d’un suo lavoro per lo schermo non è difficile individuare richiami e tracce di quella musica “alta” che proprio il gioco della fortuna sembrava aver messo sullo sfondo della sua attività – ma certo non dei suoi interessi -: basterebbe guardare all’impronta sinfonica mahleriana con cui Rustichelli risolve la partitura per lo spaghetti western Un minuto per pregare, un istante per morire; o alla pagina inequivocabilmente à la Bach scritta per Kapò; o ancora alle ripetute citazioni wagneriane di cui è beffardamente disseminato L’armata Brancaleone e il suo seguito; o infine – ma gli esempi sarebbero davvero innumerevoli – all’adozione di un modello incongruamente nobile come il valzer a contrappuntare un’efferata resa di conti tra pistoleri (I quattro dell’Ave Maria), che acquista così le movenze di una danza. In altre parole, in Rustichelli l’artigianato per lo schermo si nutre anche di un recupero divertito e anticonformista di matrici musicali “alte”, non meno che di quelle “volgari”; a questo privato bagaglio culturale si coniuga poi una scrittura concreta, mai leziosa, sempre attenta alla solidità della trama melodica, sempre linearmente – e a volte un po’ schematicamente – bipartita in nome della dicotomia sentimentale/drammatico; le sue orchestrazioni, terse e senza orpelli, riconoscono di regola il proprio centro motore nelle tastiere – piano, organo, Hammond, cembalo, fisarmonica, ecc. -; il melodizzare, come s’è detto assolutamente centrale nelle sue formulazioni, è schietto, cristallino, spesso attraversato da umori popolareschi, altrove incline a suggestioni à la française che hanno fatto di lui uno dei musicisti d’elezione per co-produzioni con l’oltralpe. E alla limpidezza complessiva, al fluire musicale disteso, contribuisce anche la puntuale adozione di strutture ritmiche semplici e composte, mai irregolari, mai accidentate. In uno dei nostri incontri Rustichelli mi disse: «Un tema per film è come una moneta che cade sul marmo: se il suono è limpido, argentino, vuol dire che è autentico e appropriato, altrimenti è fasullo». Di quelle monete, nel cinema di Rustichelli, se ne sentono tante.
Rassegna a cura di Sergio Bassetti
ore 17.00
I compagni (1963)
Regia: Mario Monicelli; soggetto e sceneggiatura: Age & Scarpelli, M. Monicelli; fotografia: Giuseppe Rotunno; scenografia e arredamento: Mario Garbuglia; costumi: Piero Tosi; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Ruggero Mastroianni; interpreti: Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Bernard Blier, Annie Girardot, Gabriella Giorgelli, Folco Lulli; origine: Italia/Francia/Yugoslavia; produzione: Vides Cinematografica, Lux Film/Méditerranée Cinéma Prod./Avala Film; durata: 128′
Fine Ottocento, Torino. In una fabbrica tessile gli operai guidati da un professore socialista entrano in sciopero per ottenere la diminuzione del lungo ed estenuante orario di lavoro. La lotta è, però, molto dura, attraversa alti e bassi, anche a causa della poca coscienza di classe degli operai. Durante uno scontro con la polizia muore un operaio. Il professore è costretto a scappare e a rifugiarsi in casa di una prostituta. «E la cornice? Non sempre è la vera Torino (c’è Cuneo, c’è pensino la Iugoslavia), ma grazie a un gusto di vecchia litografia che tutto eguaglia e livella, ci sfila di fronte una verosimile Torino fine secolo che sembra copiata paro paro dalle ingiallite fotografie dei nostri nonni: con i suoi portici umidi e anneriti, i suoi parchi ingombri di mucchi di neve, la sua periferia squallida e tetra, resa anche più livida da una fotografia volutamente scura e velata, incline agli effetti incerti delle dagherrotipie» (Rondi).
ore 19.15
Il padre di famiglia (1967)
Regia: Nanni Loy; soggetto: Giorgio Arlorio, N. Loy, Ruggero Maccari; sceneggiatura: N. Loy, R. Maccari; fotografia: Armando Nannuzzi; scenografia: Carlo Egidi; costumi: Marcel Escoffier; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Franco Fraticelli; interpreti: Nino Manfredi, Leslie Caron, Claudine Auger, Ugo Tognazzi, Mario Carotenuto, Evi Maltagliati; origine: Italia/Francia; produzione: Ultra Film, Marianne Productions; durata: 110′
«Architetto lui, architetta lei, si sposano negli anni eroici del dopoguerra, hanno quattro figli e sognano una società nuova. A poco a poco il matrimonio si logora, lui cerca distrazioni con un’altra donna, lei finisce in clinica. Il boom degli anni Sessanta ha corrotto anche loro. Uno dei migliori film di Loy (1925-95), scritto con Ruggero Maccari. Concilia il divertimento con l’analisi sociale e l’impegno morale. Una delle migliori interpretazioni di N. Manfredi con un numero memorabile di U. Tognazzi» (Morandini).
ore 21.15
Incontro moderato da Sergio Bassetti con Flavio De Bernardinis
a seguire
La Betìa ovvero in amore per ogni gaudenza ci vuole sofferenza (1971)
Regia: Gianfranco De Bosio; soggetto: dalla commedia La Betìa di Angelo Beolco detto “Ruzante”; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, G. De Bosio, Nino Manfredi, Guido Stagnaro; fotografia: Roberto Gerardi; scenografia: Sergio Canevari, Aca Milovic; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Alberto Gallitti; interpreti: Rosanna Schiaffino, N. Manfredi, Lino Toffolo, Mario Carotenuto, Smoki Samardi, Franco Pesce; origine: Italia/Jugoslavia; produzione: Finarco, Merope, Kosutniak Film; durata: 99′
La bella Betìa, figlia di un’agiata contadina veneta, si convince a sposare il bracciante Zilio tramite la complicità di Nale, già sposato con Tania, col quale dividerà le sue grazie. «Con un costante sottofondo di assurdo festoso, il racconto è tutto percorso da umori ribaldi e grezzi ma autentici, resi con un gusto vivido della baruffa e dello scherzo – le scene della guerra per conquistare la Betìa suggeriscono una sapida interpretazione cinematografica dei poemetti eroicomici del nostro Rinascimento – e dettati da una simpatia per il mondo agreste, popolato di figure burlesche, in cui compiutamente si traduce la colorita fantasia del Ruzante. Interpreti bene assortiti sono Rosanna Schiaffino, che dà alla Betìa fondo e piccante rilievo; Nino Manfredi (Nale), impegnato in un interessante profilo di furbo stralunato; Smoki Samardi, sempre molto simpatico nelle parti di patetico grullerello, Lino Toffolo, Eva Ras e molti altri, italiani e jugoslavi, allegramente concordi nel preferire i trionfi della pancia e del sesso ai pallidi tornei delle ideologie» (Grazzini). «La Schiaffino non è mai stata così allegramente sensuale» (Kezich).
Ingresso gratuito