Nella giornata di chiusura della Diaspora degli artisti in guerra, al Centro Sperimentale di Cinematografia, Yervant Gianikian ha presentato i suoi lavori Prigionieri della guerra e Oh! uomo, realizzati con la moglie Angela Ricci Lucchi. Nel primo, le “scritture di guerra”, diari e lettere di soldati vengono raccontati dalle immagini. Un film sulla Grande Guerra, che si compone di materiali cinematografici raccolti negli archivi dei grandi imperi che si fronteggiarono, in prevalenza zarista ed austro-ungarico. Ne emerge la contrapposizione con i “film rapporto” militari sulle condizioni dei prigionieri di guerra, degli orfani, dei profughi, donne e bambini, dei caduti delle due parti. Ma soprattutto si comprendono le vicende di etnie diverse sui vari fronti.
Oh! Uomo è il terzo atto della trilogia sulla Prima guerra mondiale, iniziata con Prigionieri della guerra e proseguita con Su tutte le vette è pace. Questa volta l’opera si concentra sul periodo del primo dopoguerra: dagli emblemi del totalitarismo alla fisicità della sofferenza umana. È la rappresentazione dell’“uomo nuovo”, uscito dalla guerra, carico di rabbia, pronto per l’esperienza totalitaria. Come le precedenti realizzazioni, il film è stato costruito utilizzando materiali storici depositati presso vari archivi italiani ed europei.
Dice Gianikian: «Oggi siamo in uno stato di guerra permanente. Abbiamo cominciato a raccontare la guerra nel 1986 con Dal Polo all’Equatore e per trent’anni circa abbiamo continuato a ripercorrere la Prima, la Seconda guerra mondiale, la questione armena e le emigrazioni. Il tempo è una continua replica, come sottolineava Gianbattista Vico: la storia si ripete. […] Abbiamo sempre lavorato sul passato, che per noi parla del presente, mentre il tempo storico riflette perfettamente questa umanità straziata dei nostri giorni. Il tempo storico e il tempo umano si sovrappongono nel dolore. Noi non facciamo altro che osservare e rievocare il continuo ripetersi della storia, che avviene attraverso la violenza».
Nella giornata di chiusura della Diaspora degli artisti in guerra, ha poi presentato il suo lungometraggio Downstream to Kinshasa l’autore Dieudo Hamadi della Repubblica Democratica del Congo.
Ha raccontato Hamadi: «Avevo sei anni al tempo della Guerra dei Sei Giorni, ed è qualcosa che non si dimentica. La ragione di questo film è mostrare quel che è successo: è scioccante sapere che la capitale del proprio paese non conosca l’esistenza di una guerra che ha prodotto tantissimi morti. Tuttavia volevo trovare una chiave per raccontare il conflitto modo differente e mi sono concentrato sull’Associazione delle vittime della Guerra dei Sei Giorni. Ho voluto mostrare un’idea di umanità possibile attraverso il teatro. I sopravvissuti, grazie allo spazio del teatro, uno spazio personale, quando sono in scena non sono delle vittime ma attori. Per riscoprire l’umanità un altro mezzo è la musica: mentre cantavano gli attori davano voce ai loro pensieri raccontando quel che è successo».
E conclude: «La selezione del film al Festival di Cannes è stato un modo per fornire un risarcimento alle vittime dopo vent’anni, quindi è il caso di dire che il cinema a volte può fare miracoli. Hamadi al momento sta realizzando un progetto in collaborazione con la Francia e un lungometraggio composto da quattro cortometraggi insieme con altri autori congolesi.
Infine l'incontro con Jasmilla Zbanic ha seguito la proiezione, di grande impatto, del suo Quo vadis Aida?
«Le guerre sono sempre scatenate dalle élite per interesse. Avevo 17 anni quando ho vissuto l'assedio di Sarajevo e ho subito capito che le questioni identitarie, religiose, territoriali sono solo una maschera per nascondere le ragioni di profitto. Recentemente stavo preparando un progetto su un agente della CIA e gli ho chiesto se c'erano interessi economici dietro la guerra in Ukraina. Lui ha risposto che 20 anni fa l'avrebbe definito una teoria complottista, ma che oggi è proprio così. Quello che è successo in Jugoslavia è stato dovuto alla volontà di distruggere il Socialismo; oggi nulla più ci appartiene, le banche, le compagnie aeree... È stato tutto venduto». Ha detto la regista, sceneggiatrice e produttrice bosniaca. Interrogata sul suo approccio femminile alle questioni di guerra ha proseguito: «Credo che nella maggior parte dei casi la violenza è mostrata al cinema come spettacolo senza conseguenze; a me interessa il contrario: mostrare le conseguenze. E so che il pubblico può immaginare la crudeltà delle cose a cui alludo. È questa la differenza sostanziale dai film che hanno una prospettiva maschile, dove la guerra porta all'eroismo. Per me queste cose sono stronzate. Aida in arabo vuol dire “ritorno”… Per me i veri eroi della guerra in Bosnia sono le donne, che hanno tanto sofferto ma che sono state in grado di tornare nei loro territori, di tornare a lavorare con i bambini.
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