La Cineteca Nazionale rende omaggio a Giuseppe De Santis, nel centenario della nascita, con il restauro di Non c’è pace tra gli ulivi, presentato a Venezia Classic, la riedizione, riveduta e aggiornata, della monografia sul regista, a cura di Marco Grossi, e la presente retrospettiva al Cinema Trevi. De Santis «fu tra i protagonisti del Neorealismo, di cui sviluppò una linea tanto personale quanto esemplare, quella che coglieva il nesso tra l’immaginazione popolare e l’epica contadina, tra un paesaggio rurale, arcaico e mitico e le trasformazioni apportate dalla civiltà dei mass media, tra la militanza politica, le lotte collettive e le strutture dell’immaginario, nutrite di cadenze melodrammatiche e romanzesche. Nel 1995 il Leone d’oro alla carriera conferitogli alla Mostra del cinema di Venezia sancì tardivamente, dopo due decenni di emarginazione, il suo apporto fondamentale alla storia del cinema italiano. Negli anni Trenta pubblicò racconti su diverse riviste, quindi nel 1935 si trasferì per gli studi universitari a Roma, dove entrò in contatto con intellettuali antifascisti come L. de Libero, R. Guttuso, P. Ingrao, M. Alicata, U. Barbaro. Tra il 1941 e il 1943 frequentò, pur senza diplomarsi, i corsi di regia del Centro sperimentale di cinematografia. Gli stessi anni lo videro coinvolto in un’appassionata militanza critica sulle pagine di “Cinema” (prima serie), dove delineò le basi teoriche di quello che di lì a poco sarebbe stato il Neorealismo. […] Queste istanze costituirono il retroterra di D. S. nella collaborazione, come sceneggiatore e aiuto regista, al film che fu emblematico risultato di quel clima civile e culturale, Ossessione (1943) di Luchino Visconti. Nell’immediato dopoguerra fu significativa la sua partecipazione a due film commissionati dall’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia): Giorni di gloria (1945), film di montaggio e a episodi sulla Resistenza, di cui D. S. fu coordinatore con Mario Serandrei (e a cui collaborarono Barbaro, Visconti e Marcello Pagliero), e Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano, storia di un reduce che si converte alla lotta partigiana, in cui fu assistente regista e di cui firmò la sceneggiatura. Fu anche sceneggiatore, non accreditato, per Desiderio, iniziato nel 1943 (con il titolo Rinuncia o Scalo merci) da Roberto Rossellini e completato nel 1946 da Pagliero […]. Nel suo film di esordio come regista, Caccia tragica (1947), prodotto dall’ANPI, sulla lotta tra i banditi sicari del padronato e le cooperative agricole emiliane, la figura della collaborazionista “Lili Marlene” (Vivi Gioi) incarna l’aspetto torbido della vicenda attraverso una femminilità proterva e disperata, lasciando trasparire non solo la lezione dei cineasti sovietici ma anche la densità drammaturgica amata da D. S. nei film noir statunitensi e in quelli di Jean Renoir. Così l’importanza, e anche il successo, di un film come Riso amaro (1949), ritratto della condizione e delle aspirazioni delle mondariso nelle paludi del Vercellese, derivò dalla capacità di D. S. di aderire a un tessuto di immaginazione popolare che passava attraverso le ansie di riscatto sociale incarnate dal magnetismo della protagonista Silvana Mangano, subito assurta al ruolo di icona popolare di un Neorealismo portato dal film ai livelli di fenomeno di massa. E nei successivi film a tematica femminile, Roma, ore 11 (1952), su un tragico incidente che vide vittime numerose ragazze in cerca di lavoro, e Un marito per Anna Zaccheo (1953), sul calvario umano e sociale di un’aspirante fotomodella, appare evidente la capacità di D. S. di catturare, come materiali contaminati e ibridati stilisticamente, i segni della civiltà di massa, i tratti distintivi dei mass media e del romanzesco popolare. […] Un aspetto, questo dell’attenzione anche sperimentale alla forma più efficace per veicolare ed esprimere un’epica popolare e di classe, che in Non c’è pace tra gli ulivi (1950), resoconto di una vendetta rusticana ambientata tra i pastori di Fondi, si traduce nell’intelaiatura visiva fatta di campi lunghi, panfocus, elaborati piani-sequenza, carrelli e ampi movimenti di gru, che diventa cifra compositiva, anticipando addirittura, come negli sguardi in macchina che si rivolgono allo spettatore, le modalità di straniamento del cinema degli anni Sessanta. In Giorni d’amore (1954) ritornano lo scenario rurale, l’ambientazione ciociara, la centralità della figura femminile (una luminosa Marina Vlady) nel racconto di una fuga d’amore stemperata sui colori ingenui e divertiti di una favola contadina, cui collaborò il pittore D. Purificato. Il mondo arcaico dei “lupari” delle montagne abruzzesi in Uomini e lupi (1957) si presta a cadenze rudi non esenti da un’acre osservazione sociale, nel tentativo di una rilettura “regionalistica” del western, ma il film fu manipolato dalla Titanus e D. S., disconoscendolo, denunciò il fatto con una lettera aperta. L’intransigenza, il rigore ideologico e la fedeltà al proprio modo di lavorare resero via via D. S. una figura scomoda per il sistema produttivo italiano, mentre fu apprezzato all’estero, in Unione Sovietica come negli Stati Uniti. Nel 1958 si trasferì in Iugoslavia per girare un apologo simbolico sulla fame e sul lavoro, Cesta duga godinu dana (La strada lunga un anno), che assunse un respiro di affresco populista. Il sentimento della coralità animò di afflato malinconico e di lucida analisi antimilitarista anche la coproduzione italo-sovietica Italiani brava gente (1964), racconto della disfatta italiana nella campagna di Russia durante l’ultima guerra. Come un controcanto alla dimensione collettiva di questi due film D. S. alternò la realizzazione di due storie sul solipsismo borghese degli anni del boom e del rampantismo sociale, La garçonnière (1960) e Un apprezzato professionista di sicuro avvenire (1972): anche se irrisolti, questi film sembrano essere una sarcastica e amara metafora di una società del compromesso […]. Negli ultimi anni, tornato nelle aule del Centro sperimentale per insegnare recitazione, fu vicino ai giovani attori e registi italiani, che riconobbero nel suo cinema una lezione fondamentale» (Bruno Roberti, Enciclopedia del Cinema Treccani).
domenica 15
ore 17.30 Giorni di gloria di Luchino Visconti, Marcello Pagliero, Giuseppe De Santis, Marcello Pagliero (1945, 70′)
«Il film è la rievocazione dei mesi concitati e drammatici che portarono alla liberazione d’Italia: combattimenti partigiani contro gli occupanti, rastrellamenti, rappresaglie nazifasciste, tedeschi che si arrendono, attività clandestine nelle città, lanci con paracadute di rifornimenti ai reparti partigiani; e infine la mobilitazione e gli scioperi che preannunciarono l’insurrezione e la liberazione, ad opera dei reparti partigiani del Comitato di Liberazione Nazionale, di alcune città del Nord: Genova, Torino, Milano, Venezia. Due episodi sono sviluppati con particolare evidenza: il processo a Pietro Caruso, cronaca drammatica del procedimento contro l’ex questore di Roma, uno dei compilatori degli elenchi di ostaggi da trucidare alle Fosse Ardeatine, e il ritrovamento, la ricomposizione e il riconoscimento dei corpi dei 335 esseri umani trucidati dai nazisti e rimasti sepolti per mesi sotto tonnellate di tufo nelle Ardeatine» (Grossi).
ore 19.00 Caccia tragica di Giuseppe De Santis (1946, 90′)
Dopo la fine della guerra un camion, sul quale viaggiano Michele (Massimo Girotti) e Giovanna (Carla Del Poggio), sposati di fresco, e il ragioniere di una cooperativa agricola incaricato di portare alla sede della cooperativa quattro milioni, viene assalito da banditi che uccidono l’autista e il ragioniere, rubano il denaro e portano via, come ostaggio, Giovanna. Della banda fanno parte Alberto (Andrea Checchi), compagno di prigionia di Michele, e la sua amante Daniela (Vivi Gioi), una ex collaborazionista. Conosciuto il fatto, i contadini della cooperativa si uniscono ai carabinieri nel dar la caccia ai malfattori. «Ci sembra si debba poter contare su Giuseppe De Santis, il quale sa raccontare con evidenza plastica e ritmica efficacia una storia abilmente congegnata in cui i cari problemi del momento oltre che trovare qui la loro più adeguata rappresentazione, costituiscono altresì il pretesto per dar modo al regista di esprimere una sua personalità» (Pasinetti). Nastro d’Argento 1948 per la miglior regia (ex aequo con Il delitto di Giovanni Episcopo di Alberto Lattuada) e per la miglior attrice non protagonista Vivi Gioi.
ore 20.45 Riso amaro di Giuseppe De Santis (1948, 109′)
«Francesca, indotta dal suo amante Walter, ruba una preziosa collana a un cliente dell’albergo in cui lavora come cameriera. Per sfuggire alla polizia si unisce alle mondine che stanno partendo in treno per la stagione lavorativa. Tra le mondariso c’è anche Silvana, un’affascinante ragazza con la testa piena di sogni. Silvana scopre la vera identità di Francesca e riesce a impossessarsi della collana rubata. Walter, per riprendere la collana, cerca di sedurre Silvana, che aveva stretto una relazione con Marco, un giovane sergente in servizio nei pressi della risaia» (Marco Grossi). «Le ragioni per le quali Riso amaro resta un caposaldo emblematico del periodo più fertile del cinema italiano – che possono aiutarci a capire meglio lo stesso fenomeno del neorealismo – sono assai forti. Fin dalla sua nascita il neorealismo sollevò, soprattutto tra i critici italiani, il problema di quanto fosse un movimento unitario, in che misura e perché autori tanto eterogenei […] e di umori così vari fossero visti dalla critica di tutto il mondo come parte di una scuola piuttosto omogenea: dal sofisticato Luchino Visconti al sanguigno De Santis, dal cronachistico Roberto Rossellini al patetico e appassionato Vittorio De Sica. E molti se lo domandano ancora oggi. Proprio Riso amaro (vi giocano la favola e la tranche de vie, il romanzo e il grand guignol, il corale e l’individuale) sembra raccogliere in sé alcune delle aporie più lampanti del neorealismo. Ma se Riso amaro fosse invece un pastiche sia pure geniale, il frutto di una semplice giustapposizione di motivi diversi? Se poi il neorealismo non esistesse, come taluni hanno voluto ribadire in questi ultimi decenni? […] Il rischio di una verifica di tali ipotesi su Riso amaro è alto, ma l’omogeneità del fenomeno Riso amaro è un fatto certo. Avrebbe altrimenti avuto, questo film, la capacità deflagrante – esso sì – di una bomba, se fosse soltanto una aggregazione aritmetica degli elementi che lo compongono? Riso amaro, insomma, come la più suggestiva metafora del neorealismo storico» (Lizzani). Nomination all’Oscar a Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani per il miglior soggetto.
martedì 17
ore 18.00 Roma ore 11 di Giuseppe De Santis(1952, 98′)
Una ditta cerca una dattilografa e moltissime ragazze rispondono all’annuncio. La scala crolla e una di loro muore. «In questa piccola folla il De Santis ha naturalmente individuato e sottolineato alcune figurine, dandocene sfondi e chiaroscuri. Nel film, come si usa dire, corale, spicca così questo piccolo coro; e gli episodi s’intersecano, ora amari, ora sardonici, talvolta con uno spento sorriso. Film composito, calcolato, previsto, con un’abilità talvolta sorprendente; e sono questa sicurezza e questa bravura a limitare l’umanità e il valore del film.Che è affastellato e al tempo stessoordinato; con intarsi e imprevisti da caleidoscopio, e al tempo stesso chiarissimo; con toni d’arida cronaca, e qualche più profondo respiro» (Gromo). «Le due versioni dello stesso fatto di cronaca (De Santis e il Genina che segue [Tre storie proibite, n.d.r.]) sono forse, nella loro capacità di ignorarsi, la prova maggiore di quanto vi è stato di grandezza nel cinema italiano tra gli anni Trenta e gli anni Settanta» (Germani).
ore 20.00 Un marito per Anna Zaccheo di Giuseppe De Santis(1953, 106′)
«Il matrimonio è il sogno di Anna Zaccheo, una bellissima ragazza figlia di un conducente della funicolare di Napoli. Il ricco pescivendolo don Antonio, rozzo e sgraziato, smania per averla in sposa e le invia continuamente dei fiori per tentare di aprire una breccia nel suo cuore. Ma egli non è certo l’uomo dei sogni di Anna, che sembra invece interessata ad Andrea, un marinaio di Ancona bello e gentile» (Marco Grossi). «De Santis rielabora alcuni dei temi che gli stanno particolarmente a cuore (l’eterna casistica del desiderio amoroso, la forza e la debolezza del sex appeal femminile, il conflitto tra modernità e tradizione) nella cornice quanto mai propizia del filone napoletano dove, com’è universalmente noto, le coordinate sociali o politiche lasciano il passo al melodramma della diversità tenace, dell’emigrazione senza scampo di una classe subalterna efficacemente identificata nel proprio immaginario, nella propria sottocultura, nella propria sfrontata “rappresentabilità”, nel proprio – come si direbbe oggi – look» (Caprara).
Per gentile concessione di Cristaldi Film, copia proveniente dalla Cineteca di Bologna
mercoledì 18
ore 16.30 Giorni d’amore di Giuseppe De Santis (1954, 102′)
«Due giovani contadini di Fondi, Angela e Pasquale, sono promessi sposi da alcuni anni. Per tradizione le nozze devono celebrarsi con tutta solennità e richiedono una notevole spesa economica, ma le famiglie dei fidanzati sono povere e il matrimonio viene rimandato di anno in anno. Un giorno Pasquale decide di ricorrere a un sotterfugio, con la complicità mascherata dei parenti di entrambi: fingerà di rapire Angela, in modo che il matrimonio diverrà inevitabile e le nozze saranno celebrate in fretta e con semplicità. Il piano concordato di nascosto tra le famiglie viene attuato» (Marco Grossi). «Tre anni dopo Due soldi di speranza (1952) di Renato Castellani – un capolavoro che pochi hanno voluto riconoscere come tale – e un anno dopo Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini – una simpatica commedia rusticana che nelle intenzioni del regista avrebbe dovuto essere anche aspra […]. Peppe De Santis, non riuscendo a condurre in porto progetti più ambiziosi, si inserì con molta autonomia nel filone che alcuni critici della sua parte vollero chiamare “neorealismo rosa”. Ne risultò un film spregiudicato e allegro, di una vitalità e di un colore raramente eguagliati nel nostro cinema. Un colore che non era solo quello del Ferraniacolor, che unicamente in questo caso, a mia memoria, fu usato in modo così controllato e personale, sperimentale e autoriale; e per averne conferma basta confrontarlo con gli altri prodotti di quegli anni, dal pioneristico Totò a colori (1952) di Steno a La nave delle donne maledette (1953) di Raffaello Matarazzo» (Fofi). Nastro d’Argento 1954-1955 a Marcello Mastroianni come miglior attore protagonista.
ore 18.30 Uomini e lupi di Giuseppe De Santis (1957, 104′)
«La minaccia dei lupi incombe come ogni inverno su un piccolo paese delle montagne abruzzesi, Vischio. Le belve feroci fanno strage di pecore e costituiscono una minaccia anche per gli animali rinchiusi nelle stalle. Attirati da un premio di ventimila lire per ogni belva uccisa, due lupari raggiungono il paese. Giovanni, uomo maturo, ha già ucciso molti lupi e ha necessità di guadagnare per mantenere la moglie Teresa e il figlio Pasqualino. Ricuccio, giovane simpatico e baldanzoso, sembra in realtà interessato solo a sfruttare la situazione e l’ospitalità per andare a caccia di donne» (Marco Grossi). «Il sale diUomini e lupi, il segreto della sua tenuta, sta proprio nell’essere fuori dal tempo, opus perfettamente preistorico. Del mito e dell’epos, prima del patto della legge e della moneta (che mai come qui prende la sua forma dalla caciotta: Pasqualino ci vorrebbe adescare pure il lupo). Non ci sono preti né sindaci, guardie né carabinieri. Solo magazzini e osterie, anche se Ricuccio non ha bisogno di vino per vaneggiare: gli basta la finestra d’un paese di fantasmi per lanciarsi in comizi d’amore» (Sanguineti).
Per gentile concessione della Titanus
ore 20.30 Incontro con Marco Grossi, Stefano Masi, Gordana Miletic, Vito Zagarrio
Nel corso dell’incontro sarà presentato il libro Giuseppe De Santis. La trasfigurazione della realtà a cura di Marco Grossi (Centro Sperimentale di Cinematografia, Associazione Giuseppe De Santis, Edizioni Sabinae, 2017).
a seguire Non c’è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis (1950, 103′)
«Il pastore Francesco Dominici, tornato dalla guerra, cerca invano lavoro nella sua terra segnata dagli eventi bellici. Una notte, per vendicarsi di un furto di pecore subito dalla sua famiglia e perpetrato dal losco Agostino Bonfiglio, arricchitosi con la borsa nera e l’usura, va a riprendersi le sue pecore con l’aiuto della sua innamorata Lucia e della sorella Maria Grazia, ma viene denunciato e arrestato» (Marco Grossi). «Ogni inquadratura sarebbe da citare, per mettere in rilievo la scultoreità delle pose, il bloccaggio degli sguardi, la composizione in profondità di campo e in diagonali che correlano i personaggi fra loro, la figurazione in contrasti estremi fra bianchi e neri. Se ne potrebbe dedurre un’impressione di staticità complessiva; essa è tuttavia animata, anzi musicalmente ritmata sia dagli stacchi di montaggio, che sono sistematicamente oppositivi, anche se non necessariamente dissonanti, sia dai movimenti di macchina, sempre tesi non ad accompagnare un’azione ma, visibili come sono, a “coreografarla”. […] Tutto questo rende difficile se non impossibile parlare di neorealismo, anche se alcuni referenti di cui il film di De Santis è debitore vengono ascritti a tale scuola: La terra trema (1948) di Luchino Visconti e In nome della legge (1949) di Pietro Germi; ma, appunto, sono film come questi a farci capire che sotto l’etichetta neorealista si celano – accomunate certo da analoghi propositi di denuncia sociale – le più contrastanti tendenze formali. Ma De Santis guarda oltre frontiera: a Orson Welles (al quale potrebbe ascriversi l’uso anomalo della voice over), al messicano Emilio Fernàndez (all’epoca assai considerato in Italia, e maestro dei contrasti bianco-neri col suo direttore della fotografia Gabriel Figueroa, al quale non è escluso che Piero Portalupi si sia ispirato per le luci di questo film), nonché ai sovietici più formalisti, non solo Sergej Ejzenštejn […] ma anche a registi come Grigorij Aleksandrov. E presumibilmente il didattismo esibito di Non c’è pace tra gli ulivi deve molto a questi ultimi» (Aprà).
Il restauro del film è stato realizzato dalla Cineteca Nazionale a partire dai negativi scena e colonna messi a disposizione da Cristaldi Film di Zeudi Araya e Massimo Cristaldi. Le lavorazioni sono state eseguite presso il laboratorio Fotocinema di Roma. L’originario tono fotografico del film è stato ricostruito con la supervisione del direttore della fotografia Giuseppe Lanci.
venerdì 20
ore 17.00 Cesta duga godinu dana di Giuseppe De Santis (La strada lunga un anno, 1958, 143′)
«Gli abitanti di un piccolo centro di montagna sembrano condannati a una eterna disoccupazione. Una mattina Guglielmo, stanco di aspettare un lavoro che non arriva mai, decide di costruire una strada per collegare il paese al mare. Fa credere ai suoi compaesani di aver ricevuto l’incarico dalle autorità pubbliche allo scopo di coinvolgere i tanti disoccupati nell’iniziativa e costringere poi gli amministratori a retribuire tutti i lavoratori per l’impresa portata a compimento» (Marco Grossi). «Io avrei voluto fare grandi romanzi, film d’impatto sociale, e invece, nella migliore delle ipotesi, le condizioni produttive del cinema italiano mi consentivano commedie come Giorni d’amore. In Jugoslavia ho girato La strada lunga un anno, tutto il film l’ho ambientato in Dalmazia scegliendo posti che assomigliassero alla mia Ciociaria il più possibile, le pietruzze, le montagne, le case, il mare, le strade; l’edizione italiana, poi, è parlata tutta in dialetto del basso Lazio. Per il film ho goduto di libertà assoluta, gli jugoslavi mi chiesero soltanto, per ragioni diplomatiche, di mettere una didascalia iniziale, dove si spiegava che la storia si svolgeva in un paese immaginario, per evitare noie con lo Stato italiano. La scelta di girare in Jugoslavia, comunque, mi fu fatta pagare. Venezia rifiutò il film perché “troppo lungo”, e in Italia praticamente non lo vide nessuno» (De Santis). Nomination all’Oscar per il miglior film straniero (1958). Golden Globe della stampa estera per il miglior film straniero 1959.
ore 19.30 La garçonnière di Giuseppe De Santis (1960, 90′)
«Alberto Fiorini, un costruttore edile di Roma, è pedinato dalla moglie Giulia, che lo sospetta di adulterio. Difatti l’uomo, che ha già avuto altre relazioni extraconiugali, è ora innamorato della giovanissima indossatrice Laura, la cui frequentazione lo illude di poter ritrovare la giovinezza ormai lontana. Giulia, accompagnata in auto dall’amica Pupa, vede Alberto entrare furtivamente in un edificio, e poco dopo scorge Laura avvicinarsi al cancello» (Marco Grossi). «Disagio, crisi, malessere: ripercorrendo buona parte della letteratura storiografica dedicata al cinema italiano dei primi anni ’60, ci si imbatte in una serie di sinonimi che aspirano a riassumere il senso di una lunga stagione perennemente “transitoria”, priva di unitarietà e articolata in percorsi individualizzati (quelli degli Autori), ma al tempo stesso livellata dall’incertezza e dalla carenza di vere prospettive. L’eredità del neorealismo è spezzata, disconosciuta, rinnegata […]. In questo contesto storico, Giuseppe De Santis realizza il proprio “film del malessere”, La garçonnière; la differenza profonda con il cinema coevo è nella lucidità dell’assunto ideologico e nella chiarezza degli intenti. Per De Santis il transito verso il nuovo decennio potrà pur essere infido e scivoloso, ma il passo deve essere sicuro e la meta fissata» (Bandirali).
ore 21.15 Un apprezzato professionista di sicuro avvenire di Giuseppe De Santis (1972, 134′)
«Il giovane avvocato Vincenzo Arduini è figlio di un onesto capostazione. Molto ambizioso, sposa Lucia, figlia di un costruttore senza scrupoli, e diventa assessore all’urbanistica. Durante la prima notte di matrimonio scopre di essere impotente. Ma il suocero vuole a tutti costi un nipote e, scartata l’ipotesi di adottare un bambino per non essere messo in ridicolo pubblicamente, Vincenzo convince Lucia a farsi fecondare da un altro uomo» (Marco Grossi). «Nel 1972, per riuscire finalmente a chiudere un progetto, costituisco una società di produzione con lo sceneggiatore Giorgio Salvioni. Un apprezzato professionista di sicuro avvenire è di nuovo un film ispirato a un fatto di cronaca, come mi è accaduto quasi sempre, perché la cronaca mi ha sempre stimolato. Il film è stato bocciato in censura due volte, perché la vicenda di un prete che scopre la dimensione del rapporto sessuale faceva scandalo. Il film è stato massacrato dalla critica…» (De Santis). «Un apprezzato professionista di sicuro avvenire è un film, indubbiamente personale, le cui qualità principali possono facilmente venire scambiate per difetti: gusto dell’ampollosità, del melodramma, enorme sovraccarico di ironia […]; al punto tale che la sceneggiatura, che avrebbe potuto funzionare come l’ispirazione socio-poliziesca di un Damiano Damiani, si trasforma in una gigantesca farsa, un irridente numero da grand-guignol che va letto al di là delle apparenze. […] Situato, malgrado le risonanze della sceneggiatura, nettamente al di fuori della corrente sociopolitica della produzione italiana, Un apprezzato professionista è una favola delirante sull’arrivismo, le ossessioni sessuali, l’impotenza, che Lino Capolicchio, Riccardo Cucciolla, Femi Benussi, Ivo Garrani e Yvonne Sanson interpretano con tutta la dismisura ironica richiesta. Peraltro, il film risulta piuttosto rivelatore di una comunanza di idee e di fattura tra De Santis e il Petri di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» (Christian Viviani).