István Gaál, dopo la sua formazione presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, è sempre rimasto legato all’Italia e a Roma, a cui ha dedicato il bellissimo documentario Római Szonáta (1996): «Sono arrivato a Roma più di trent’anni or sono. L’incontro assomigliava a uno sposalizio e da allora sono rimasto un innamorato fedele». Il regista ungherese tornerà al CSC tra il ’78 e ’79 come visiting professor su invito di Guido Cincotti, da regista affermato: nel 1970 il suo Magasiskola – I falchi aveva vinto il premio della giuria a Cannes. In patria aveva esordito nel 1963 con quello che forse è il suo capolavoro, Sodrásban (Corrente), film che segna la nascita della novelle vague danubiana e che ottiene un enorme successo di critica. Sin da allora si occupa sia della sceneggiatura che del montaggio di ogni suo film, alternando film di narrazione e documentari. Oltre ad essere fotografo di pregevole valore, ha profondo interesse per la musica, cui dedica diversi lavori, tra cui la notevolissima messa in scena dell’opera di C.W. Gluck Orpheusz és Eurydiké (1985) o i documentari su Béla Bartók. Paolo Vecchi gli ha dedicato recentemente una monografia dal titolo Radici. Radici, riprendendo il titolo del documentario su Bartók. Scrive Gaál: «Ho cominciato, coscientemente, a guardare bene gli alberi e le loro radici: come si collocano e fino a quale profondità arrivano sottoterra. Senza struttura non si fa niente». Assieme alla selezione di opere di Gaál fanno parte della rassegna alcuni film ungheresi del passato e degli ultimi anni, per offrire un panorama, certamente non esaustivo, degli autori magiari dell’ultimo ventennio: dagli anni ’60 dei Szabó, Jancsó, Sándor, Kovács, ormai universalmente noti, alla una nuova generazione dei Nimród Antal, János Szász, Ildikó Enyedi.
giovedì 25
ore 17.00
Szerelem (Amore, 1970)
Regia: Károly Makk; soggetto: da due racconti di Tibor Deéry; sceneggiatura: Péter Bacsó; fotografia: János Tóth; musica: András Mihály; montaggio: György Sívó; interpreti: Lili Darvas, Mari Töröcsik, Iván Darvas, Erzsi Orsolya; origine: Ungheria; produzione: Hungarofilm, Mafilm Stúdió 1; durata:
Budapest, 1953. Nel clima stalinista del sospetto e della paura, János è in carcere per ragioni politiche. Luca, sua moglie, ignorando se il marito sia ancora vivo, assiste comunque la madre invalida di János e mostrandole delle lettere false, le fa credere che il figlio stia lavorando a un film negli Stati Uniti. Quando Luca viene a sapere che il marito è vivo, l’anziana madre muore prima che János riacquisti la libertà. Desunto da 2 racconti di Tibor Déry, il maggiore scrittore magiaro della sua generazione, il film, confronto a porte chiuse tra la giovane Töröcsik e l’anziana Darvas, vedova dello scrittore Ferenc Molnar, è uno struggente esempio di cinema da camera. Gran Premio della Giuria e Premio come migliori attrici a Cannes.
«Amore è uno splendido esempio di come si possa far rivivere le vicissitudine storiche di un’intera epoca attraverso il dramma da camera di singoli personaggi. Il film si svolge attorno a tre protagonisti, in un appartamento mostrato nei più segreti recessi, dall’aspetto squallido, seguendo i ricordi di una vecchia signora e le sue associazioni di idee, e tuttavia quante cose vi si racchiudono! Amore è andato oltre i metodi dei film cui si ispirava anche per il fatto che, nonostante l’azione si svolga in un tempo reale più o meno definito, la vita interiore dei personaggi corre per lo più sui binari del sogno, dell’immaginazione, del ricordo». (Miklós Györffy)
ore 19.00
Megáll az idö (Il tempo sospeso, 1982)
Regia: Péter Gothár; soggetto e sceneggiatura: P. Gothár, Géza Bereményi; fotografia: Lajos Koltai; musica: György Selmeczi; montaggio: Mária Nagy; interpreti: Anikó Iván, István Znamenák, Henrik Pauer, Sándor Söth, Péter Gálfy; origine: Ungheria; produzione: Budapest Filmstúdió; durata:
Budapest 1963. Denes e Gabor vivono con la madre e dal 1956 non vedono il padre, esule politico. Vorrebbero fuggire in America, arrivano al lago Balaton. Storia amara di ragazzi e ragazze, di sesso, di amori, di suicidi, di deriva, di ribellioni sterili, di vuoto dentro: una generazione perduta, senza modelli, Coca-Cola e musica rock. Gothár sa raccontare gli altri, impegnandosi con tutto se stesso.
«Il tempo sospeso rivolge uno sguardo nuovo sugli anni posteriori al 1956, lo sguardo d’ un adolescente su un periodo tetro in cui i genitori tacevano e i liceali soffocavano. Il tutto con una messa in scena, anch’essa soffocante, in cui i personaggi si muovono in un’atmosfera di gelida foschia. Un film limite astratto, dunque, in una situazione concreta». (Emile Breton)
ore 21.00
Kontroll (2006)
Regia: Nimrod Antál; soggetto e sceneggiatura: N. Antál, Jim Adler; fotografia: Gyula Pados; musica: Neo; montaggio: István Király; interpreti: Sándor Csányi, Sándor Badár, Zoltán Mucsi, Zsolt Nagy, Csaba Pindroch, Eszter Balla; origine: Ungheria; produzione: Café Film, Bonfire; durata:
Interamente girato nella metropolitana di Budapest, la più vecchia dell’Europa continentale, Kontroll è un thriller d’azione, quasi in cadenze da western sotterraneo che fa capo a un energico ispettore/sceriffo alle prese con abusivi senza biglietto, due gruppi rivali di controllori cialtroni e un assassino diabolicamente intelligente. Scazzottate, inseguimenti e pericolosi cimenti di railing (corse su binari davanti all’ultimo treno notturno che rientra in deposito). Il giovane e talentuoso regista Nimrod Antál (1973), nato a Los Angeles, laureato a Budapest, riesce a suggerire un universo livido e claustrofobico in bilico sul grottesco e sul surreale. Pluripremiato al festival di Karlovy Vary e Prix de
«Si tratta di un prodotto capace di suscitare risate, di mostrare orrori tutt’altro che fantastici, di sfruttare momenti d’azione e violenza e romanticismo, costruendo una vicenda che mette in scena concreti personaggi i quali non fungono altro che da campioni di realtà per raccontare una dimensione in cui cercare di fuggire da se stessi, attraverso una sceneggiatura (ad opera dello stesso regista) che, apparentemente discontinua, non sembra essere altro che una versione allegorica dell’imprevedibile andamento della vita». (Francesco Lomuscio)
venerdì 26
ore 17.00
Nekem lámpást adott kezembe az Úr, Pesten (Il Signore mi ha dato una lanterna a Pest, 1999)
Regia: Miklós Jancsó; soggetto e sceneggiatura: M. Jancsó, Ferenc Grunwalsky, Gyula Hernádi, Ágnes Ágai; fotografia: Ferenc Grunwalsky; musica: György Ferenczi; montaggio: Zsuzsa Csákány; interpreti: Zoltán Mucsi, Péter Scherer, József Szarvas, Gyula Hernádi, M. Jancsó; origine: Ungheria; produzione: 3J+1Bt., Kreatív Média Mûhely; durata:
«Sorta di testamento barocco in cui, tutto preso dalla gioia vorticosa di filmare, Jancsó si mette in scena – e a morte – con il suo sceneggiatore e amico Gyula Hernádi. Questo film dice – con i soli movimenti di macchina, saltando di palo in frasca, dal cimitero ad un’impresa riacquistata da truffatori, da un ricevimento mondano ai preparativi pieni di chiacchiere per un suicidio fallito su un ponte del Danubio – che quando si crede tutto perduto restano il cinema e la felicità di donare un film agli altri, quegli spettatori che l’attendono senza sapere che è di questo, di questo granello di follia che hanno bisogno». (Emile Breton)
ore 19.00
Édes Emma, drága Böbe – vázlatok, aktok (Dolce Emma, cara Böbe, 1992)
Regia: István Szabó; soggetto e sceneggiatura: I. Szabó, Andrea Vészits; fotografia: Lajos Koltai; musica: Tibor Mornai, Mihály Móricz, Feró Nagy; montaggio: Eszter Kovács; interpreti: Johanna Ter Steege, Enikö Börcsök, Péter Andorai, Éva Kerekes, Erzsi Pásztor; origine: Ungheria; produzione: Objektív Filmstúdió Vállalat, Vidovox Stúdió, Audio Kft., Manfred Durniok Prodiktion; durata:
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1989, due insegnanti di russo sono costrette a riciclarsi passando all’inglese: Emma s’arrangia facendo la domestica in una famiglia ricca; Böbe, coinvolta in un giro di droga e prostituzione, è arrestata e finisce suicida. Dopo un quartetto di eurofilm ad alto costo, Szabó fa un piccolo, povero, disincantato film sull’Ungheria nel confuso passaggio dal socialismo all’economia di mercato. Pur con squilibri narrativi e sbandamenti stilistici, è una storia raccontata con sconsolata lucidità e un finale dolorosamente memorabile. Premio speciale della giuria al Festival di Berlino.
«L’unica colpa di Emma, di Böbe e delle altre vittime innocenti dei cambiamenti politici è quella di aver vissuto in un regime che oggi tutti vogliono dimenticare, gettare nella pattumiera assieme a tutto ciò che, fino al 1989, era importante per loro: le idee, l’insegnamento del russo, i valori d’onestà e dignità. Ora l’ordine dei valori è capovolto ed emerge il vuoto, mancano quei punti di riferimento ideologici o morali che potrebbero aiutare l’individuo a porsi nuovi obiettivi. Emma e Böbe non hanno voce in capitolo, al massimo possono assistere ai cambiamenti che avvengono nella scuola. Con gli stessi occhi stupefatti di Apa, che ha assistito alla sostituzione dello stemma coronato con la stella rossa sul muro della scuola, le due donne assistono alla sostituzione dello scudo con la spiga di grano con quello coronato. Quest’opera amara semplice e pura è nata probabilmente dal senso di responsabilità per la sorte della gente innocente, nonché dalla giusta indignazione nei confronti di una società che dovrebbe impedire l’emarginazione totale dei suoi cittadini, ma non lo fa». (Ezster Fazekas)
ore 21.00
Az én XX. Századom (Il mio XX secolo, 1989)
Regia: Ildikó Enyedi; soggetto e sceneggiatura: I. Enyedi; fotografia: Tibor Máthé; musica: László Vidovszky; montaggio: Mária Rigó; interpreti: Dorotha Segda, Oleg Jankovskij, Péter Andorai, Gábor Máté, Paulus Manker; origine: Ungheria, Germania, Cuba; produzione: Budapest Filmstúdió, Fridlander, Hamburger Filmbüro, Istituto Cubano del Arte e Industrias Cin.; durata:
Due gemelle di Budapest, orfane, che vendono fiammiferi nella notte di Natale, sono separate dal destino e si ritrovano, ignare, vent’anni dopo, sull’Orient Express: l’una fille de joie e avventuriera in prima classe, l’altra anarchica con voglia di attentati in terza classe. Saranno amate dallo stesso uomo, con i buffi equivoci del caso. Intanto, di là dall’Atlantico, Thomas Alva Edison inventa la lampadina elettrica e altri meravigliosi marchingegni. Estroso omaggio al cinema muto con frequenti citazioni del melodramma musicale, in bilico tra favola e racconto d’avventure, è una originale commedia ironica, ricca di gag intelligenti, qua e là appesantita da una compiaciuta esibizione di bravura. Caméra d’or al Festival di Cannes 1989 per l’opera prima.
«Az én XX. Századom (Il mio XX secolo) guarda il futuro dagli ultimi minuti dell’Ottocento. Registra il momento in cui si poteva guardare al Novecento come al secolo delle possibilità senza limiti: il secolo della luce, dell’elettricità, del telegrafo, della comunicazione, il secolo in cui l’uomo sicuramente avrebbe conquistato la padronanza della tecnica senza perdere il rapporto con la natura. Az én XX. Századom è la storia di un triangolo d’amore che si basa sul miracolo, sulla stupefazione, sulla civetteria, sull’innocenza e sulla genuinità». (Balázs Varga)
sabato 27
ore 17.00
Tamás és Juli (Tamas e Juli, 1997)
Regia: Ildikó Enyedi; soggetto e sceneggiatura: I. Enyedi; fotografia: Tamás Sas; musica: Laszlo Melis; montaggio: Mária Rigó; interpreti: Márta Angyal, György Barkó, Ferenc Elek, Dávid Jánosi; origine: Ungheria; produzione:
Tamás, un giovane minatore, e Juli, una maestra d’asilo, si conoscono nell’estate del 1999. Entrambi troppo orgogliosi per dichiararsi il loro amore, non riescono ad andare oltre una tenera amicizia. Il 31 dicembre Juli decide di scrivere a Tamás: gli dà appuntamento alle 10 di sera al bar di Rocher. Tamás legge e rilegge questa lettera d’amore mentre il caposquadra della miniera sta annunciando quali minatori dovranno essere di turno quella sera. Il suo nome è sulla lista. Juli dovrà aspettare, e Tamás non ha modo di avvertirla…
«Cronaca di una tragedia annunciata. Un velo di morte si affaccia sin dall’inizio negli occhi di Tamás, ancora prima che gli venga annunciata la cattiva notizia del lavoro in miniera nella notte di Capodanno. Un Tempo soggettivo, quello dei giovani protagonisti, si spezza proprio quando un Tempo cronologicamente epocale si presenta: il passaggio dal XX al XXI secolo. […] Già in Il mio XX secolo (Camera d’Or a Cannes nel 1989) la regista ungherese Ildikó Enyedi descriveva il passaggio dal secolo scorso a questo. Tamás és Juli mantiene una sua coerenza visiva nostalgicamente “passéiste” in un’ambientazione temporale precisamente indicata: gli ultimi mesi del 1999.
ore 19.00
Woyzeck (1994)
Regia: János Szász; soggetto: dal dramma omonimo di Georg Büchner; sceneggiatura: J. Szász; fotografia: Tibor Máthé; musica: Henry Purcell; montaggio: Anna Kornis; interpreti: Lajos Kovács, Diana Vacaru, Alekszer Porohovscsikov, Péter Haumann; origine: Ungheria; produzione: Magic Media; durata:
János Szász riesuma il dramma di Georg Büchner ambientandolo nell’Ungheria di oggi eppure mantenendone le caratteristiche di cupa astrazione: il disturbato protagonista è guardiano dello scambio n. 425 e abita l’annessa baracca, l’inquieta Maria subisce il richiamo dei sensi durante una festa di dropout, il Tamburmaggiore fa il poliziotto; ma ogni elemento del paesaggio sembra sprofondato in una dimensione atemporale, sospeso nelle nebbie esistenziali di un avvolgente bianco e nero.
«Riflessione eterna ed attuale Woyzeck s’interroga su temi senza tempo oppure profondamente legati ad un hic et nunc, costituendo un repertorio, ambiguo ed illuminante quanto sanno esserlo le opere d’arte sulla paura, lo smarrimento, la perdita del centro, homo hungaricus del dopo ’89» (Paolo Vecchi).
ore 20.30
Incontro con János Szász
A seguire:
Witman fiùk (I fratelli Witman, 1997)
Regia: János Szász; soggetto: dal racconto di Géza Csáth; sceneggiatura: J.Szász, András Szeredás; fotografia: Tibor Máthé; musica: Miklosné Miklos; montaggio: Anna Kornis; interpreti: Maia Morgenstern, Alpár Fogarasi, Szabolcs Gergely, Lajos Kovács; origine: Polonia/Francia/Ungheria; produzione: 47ème Parallèle, Budapest Filmstúdió, MTM Kommunikáció, Ma film; Music Television, Studio Filmowe Zebra; durata:
In questo dramma incalzante di alienazione e solitudine, i fratelli Witman, trascurati dalla madre, sono spaventati dalla vita. Cercano un calore umano e il senso della loro vita, ma lo cercano nel posto sbagliato – incluso il locale bordello. Potrebbero sembrare innocenti, almeno al primo sguardo, ma in realtà sono destinati a una morte ignobile. Ambientato in un piccolo villaggio appena prima dello scoppio della prima guerra mondiale, questo racconto di gioventù ribelle è diretto in modo perfetto da Jánosz Szász, con la squisita fotografia, giustamente premiata, di Tibor Máthé. I fratelli witman è un film shoccante e provocatorio, ma che fa pensare.
«La raffinatissima fotografia di Tibor Máthé tende così a dipingere con partecipata distanza un ambiente di provincia, con i suoi scorci nevosi, le bettole grevi di fumo, i campanili a cipolla e i cimiteri ben curati. Anche le esistenze piccolo borghesi che in esso si dipanano vengono inquadrate in una sorta di geometria pittoricamente fascinosa anche laddove si evidenzia il vuoto dei sentimenti, o la loro perversione nella ricerca delle atrocità più gratuite. E se la strada della cittadina viene ad un certo momento attraversata da un gruppo di soldati in marcia, Szász avverte la necessità di dare una prospettiva storica più concreta all’orrore che traspare sotto al superficie di apparenze ordinate, datando i “giochi proibiti” dei ragazzi Wittman al marzo 1914, la vigilia di una tragedia di ben altra portata, ben altrimenti raccapricciante». (Paolo Vecchi)
domenica 28
ore 17.00
Orfeusz és Eurydiké (Orfeo ed Euridice, 1985)
Regia: István Gaál; soggetto: dal libretto di Raniero de’ Calzabigi; sceneggiatura: I. Gaál; fotografia: Sándor Kurucz, József Lörincz, Sándor Sára; musica: Christopher W. Gluck; montaggio: I. Gaál; interpreti: Sándor Téri, Enikö Eszenyi, Ákos Sebestyén; voci: Lajos Miller, Maddalena Bonifaccio, Veronica Kincses; origine: Italia/Ungheria; produzione: Budapest Filmstúdió, Mokép; durata:
«Esempio di fusione tra cinema e musica sinfonica, il film non si limita ad illustrare l’opera di C.W. Gluck, ma ne dà un’interpretazione autonoma e originale, esaltando la plasticità a discapito della verosimiglianza. È un percorso che salda bene l’astrattezza del brano musicale fino a superare l’oggettivo realismo del fotogramma». (Umberto Rossi)
ore 19.00
Római szonáta (Sonatina romana, 1996)
Regia: István Gaál; soggetto e sceneggiatura: I. Gaál; operatore: Lajos Sasvári; montaggio: I. Gaál; montaggio musicale: Katalin Sándor; origine: Ungheria/Italia; produzione: Studiofilm Kft, Magyar Televízió, Csc; durata:
Dall’alba al tramonto, la vita di una grande città profondamente amata dal regista.
«Il regista, che ha più volte spiegato di essere contrario a un cinema letterario e all’attitudine letteraria del film, con questa sua opera arriva più vicino a un ideale di purezza assoluta, così come è stato concepito diverse volte durante la storia del cinema: rappresentare il mondo senza l’ipoteca di tutte le eredità letterarie e teatrali, ma esclusivamente con la ricchezza delle immagini, della composizione, del montaggio, del ritmo e della forma. Gaál torna così ai film di città dell’avanguardia cinematografica». (Paolo Vecchi)
ore 20.00
Étude (1961)
Regia: István Gaál; soggetto e sceneggiatura: I. Gaál; fotografia: Anton Van Munster; musica: Vittorio Gelmetti; montaggio: I. Gaál; origine: Italia; produzione: Centro Sperimentale di Cinematografia; durata:
Un giovane si addormenta mentre sta studiando di notte. Poi si alza, va alla finestra, guarda la città che si sta svegliando e fischia le prime cadenze della sinfonia n.
«Questa breve meditazione collocata in un contesto urbano parla di nuovo del rapporto tra uomo e ambiente. In parallelo col piccolo mondo intimo, introverso e meditativo, vengono sottolineate le tre inquadrature sulla città, in cui ci troviamo di fronte a una rigida geometria, allo spettacolo dello spazio definito dai tetti e dalla via che attraversa le file di alti palazzi». (Paolo Vecchi)
ore 20.30
Incontro con Paolo Vecchi
ore 21.30
Sodrásban (Corrente, 1963)
Regia: István Gaál; soggetto e sceneggiatura: I. Gaál, con la collaborazione di Imre Gyöngyössy; fotografia: Sándor Sára; musica: Antonio Vivaldi, András Szöllösy, János Sándor, Girolamo Frescobaldi; montaggio: I. Gaál; interpreti: Andrea Drahota, Sándor Csikós, András Kozák, Marianne Moór, Istvánné Zsipi, Tibor Orbán; origine: Ungheria; produzione: Hunnia Filmstúdió; durata:
Alcuni ragazzi e ragazze in vacanza si incontrano al fiume. Fanno il bagno, di divertono, scherzano, flirtano. Uno studente più anziano propone una prova di coraggio: immergersi e portare dal fondo del fiume un pugno di fango. Ma improvvisamente uno di loro, Gabi, scompare nella corrente. Lo cercano, lo chiamano, avvertono la polizia, ma nulla. È forse affogato. La polizia li sottopone ad interrogatorio, ma a parte qualche indizio non nasce alcun sospetto. Li prende una disperazione che fa affiorare tutte le loro insicurezze, i loro rapporti vengono messi in crisi, le coppie si separano. Infine viene ritrovato il corpo dell’amico annegato, forse per un malore. I ragazzi tornano in città, ai loro studi, ma la vicenda li ha cambiati, con l’esperienza sono cresciuti. È una metafora sulla complessità e la durezza di una società oppressiva e mendace. Lungometraggio d’esordio di Gaál, premiato come miglior regia al Festival del Cinema Ungherese. Premiata anche l’intensa fotografia in bianco e nero di Sándor Sára.
«Il regista restringe il processo del passaggio dall’adolescenza alla maturità a una situazione esistenziale di base: i membri della giovane compagnia entrano nella “vita” con la coscienza della responsabilità della morte tragica di un loro amico. […] La responsabilità per l’attenzione o la disattenzione si pone in rapporto con una persona conosciuta, provocando nei giovani la necessità di autoanalisi […]. Gaál coinvolge anche gli spettatori in questo processo che non concede alibi, facendo leva sui mezzi più raffinati di un cinema modernissimo». (Paolo Vecchi)
lunedì 29
chiuso
martedì 30
ore 17.00
Valahol magyarországon (Da qualche parte in Ungheria, 1987)
Regia: András Kovács; soggetto e sceneggiatura: A Kovács; fotografia: Ferenc Szécsényi; montaggio: Ferenc Szécsényi; interpreti: Péter Blaskó, Imre Csiszár, Mari Szemes, Anna Kubik; origine: Ungheria; produzione: Dialóg Filmstúdió; durata:
Funzionari di partito tentano di arrestare lo slancio di un popolare candidato alle elezioni in questo dramma politico. Bodnar, opponendosi al progetto di una cava nella zona, è riuscito ad ottenere un largo consenso. Con due attempati prestanome volti alla sconfitta nelle elezioni appena proclamate, i funzionari di partito tentano di screditare il padre di Bodnar. Il risultato è un fallimento e Bodnar vince le elezioni, ma il suo dipendente è un funzionario che precedentemente aveva tentato di incastrarlo.
«Vanno citati il coraggio contenutistico e la serratezza del racconto di Valahol Magyarorszagon (Da qualche parte in Ungheria), sul recente provvedimento elettorale che prescrive l’obbligo della presentazione di almeno due candidati e le resistenze e gli imbrogli di una “vecchi guardia” male… abituata: il finale del film è anche un auspicio, da parte di Kovács, perché si vada ancora più avanti, sulla strada della vera democrazia, e Kovács, grande regista di film-dibattito e di film politici, non è qui indegno della sua fama». (Giacomo Gambetti)
ore 19.00
Cserepek (Cocci, 1980)
Regia: István Gaál soggetto e scenggiatura: I. Gaál; fotografia: József Lörincz; musica: Gábor Presser, András Szöllösy; montaggio: I. Gaál; interpreti: Zygmunt Malanowicz, Katalin Gyöngyössy, Tamás Horváth, Irma Patkós, Edit Soós; origine: Ungheria; produzione: Budapest Filmstúdió; durata:
András Vígh, 40 anni, divorziato, è architetto di interni. Nonostante i suoi successi professionali anche all’estero, è scontento del proprio lavoro, del proprio ambiente e soprattutto di se stesso. Spinto anche dai suoi incubi ricorrenti, si rivolge ad uno specialista. Non si aspetta una soluzione ai suoi problemi solo dalla psicoterapia, ma cerca lui stesso di trovarne le radici rievocando tutti gli strazi della propria vita. Gli sembra però impossibile rimetterne a posto i cocci, trovare le cause delle sue continue angosce, del suo senso di vuoto. Alla fine sembra delinearsi un raggio di sole, una via d’uscita: la solidarietà di un’altra persona.
«Cserepek rivela in modo ricco e complesso i rapporti tra l’uomo e il mondo che lo circonda, sia dal punto di vista morale e psicologico, sia da quello sociale e metafisico. Il film per Gaál rappresenta sempre la totalità stessa, e non dimentica mai nemmeno il fatto che esso è, nello stesso tempo, anche spettacolo. Oltre a questo, Cserepek rappresenta il nuovo tassello di un’opera costruita con grande coerenza ormai da vent’anni, con grande disciplina e originalità artistiche». (Michel Ciment)
ore 21.00
Holt vidék (Paesaggio morto, 1972)
Regia: István Gaál; soggetto e sceneggiatura: I. Gaál; dialoghi: Péter Nádas; fotografia: János Zsombolyai; musica: András Szöllösy; montaggio: I. Gaál; interpreti: Mari Töröcsik, István Ferénczi, Irma Patkós, Ferenc Paláncz; origine: Ungheria; produzione: Mafilm IV, Játékfilmstúdió; durata:
L’industrializzazione ha spopolato un paesino dell’Ungheria meridionale. Sono rimasti tre abitanti: Anti e Juli, giovani sposi (con un figlioletto che va a scuola in una cittadina vicina e torna il sabato), e la loro vecchia zia Erzsi. Mentre Anti lavora duramente come contadino e tagliaboschi, Juli, sempre più sola e irrequieta, vorrebbe uscire da quella solitudine. La vecchia muore senza poter rivedere il figlio emigrato in Canada che arriva con la famiglia per il funerale e riparte. Juli, disperata, si suicida. Quinto film di lungometraggio di Gaál, scritto con Péter Nádas. Pur innervato di un lucido impegno politico (Gramsci filtrato da Jaspers) e radicato in una precisa realtà sociale, è un film di profondo pessimismo esistenziale. Lo sostengono un ammirevole senso dello spazio (del paesaggio) e l’interpretazione di Mari Töröcsik, premiata al Festival di Karlovy Vary.
«In un film lo spopolamento di un villaggio – come del resto qualsiasi altro argomento – potrebbe essere rappresentato in tanti modi dal punto di vista artistico. Ad esempio, potrebbe rievocare la situazione degli anni ’30, nonostante sia stato realizzato negli anni ’70. Potrebbe trasmettere l’idea di un’atmosfera di distruzione. Oppure anche quella di una fase, dolorosa ma naturale, dello sviluppo, come il travaglio del parto di un mondo, di una vita nuovi. E in questo caso, a nostro parere, ne sarebbe venuta fuori un’opera importante». (György Aczel)