Donne: la vita al lavoro
15 Maggio 2012 - 17 Maggio 2012
Come in un gioco di parole rovesciamo la celebre frase di Cocteau per cui il cinema filma la morte al lavoro, per tracciare attraverso una manciata di film la storia delle donne nel Novecento, la loro condizione esistenziale e lavorativa dal secondo dopoguerra al terzo millennio. La rassegna, a cura di Maria Coletti, è un’occasione per rivedere alcuni classici del cinema italiano, capolavori e gioielli nascosti in grado di seguire il filo rosso delle piccole e grandi battaglie che il lavoro riserva alle donne: la speranza e la disillusione, l’utopia e la routine quotidiana, gli affetti e i difetti, i progetti e il precariato, la maternità e la sicurezza, l’educazione e la cultura, la dignità e il coraggio, l’amore e la dignità. In una parola, la vita.
martedì 15
ore 16.30
Speriamo che sia femmina (1986)
Regia: Mario Monicelli; soggetto: Tullio Pinelli; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Suso Cecchi d’Amico, Tullio Pinelli, M. Monicelli; fotografia: Camillo Bazzoni; scenografia: Enrico Fiorentini; musica: Nicola Piovani; montaggio: Ruggero Mastroianni; costumi: Ezio Altieri; interpreti: Liv Ullmann, Catherine Deneuve, Giuliana De Sio, Stefania Sandrelli, Athina Cenci, Lucrezia Lante della Rovere; origine: Italia/Francia; produzione: Clemi Cinematografica, Les Producteurs Associés; durata: 114′
«Declino di una famiglia del latifondo toscano (Grosseto) che gestisce un’azienda agricola e in cui contano (e lavorano) soprattutto le donne. Grande film borghese che arricchisce il povero panorama del cinema italiano degli anni ’80 per il sapiente impasto di toni drammatici, umoristici e grotteschi, la splendida galleria di ritratti femminili, la continua oscillazione tra leggerezza e gravità, il modo con cui – senza forzature ideologiche – sviluppa il discorso sull’assenza, la debolezza, l’egoismo dei maschi» (Morandini). «Speriamo che sia femmina è un film molto importante per diversi motivi, dei quali mi limiterò a citare solo i due che mi paiono decisivi: l’ampiezza di riferimenti del tema portante, da una parte; la capacità di articolarlo in una miriade di storie microscopiche ben intrecciate fra loro, dall’altra. Il tema è netto, inequivocabile, preciso, anche se non enunciato in forme dirette o sfacciate: la fine di una società e di un mondo basati su rapporti che vedono come asse portante il maschio e la centralità della sua cultura (cultura della proprietà, cultura del dominio, cultura degli affetti sottomessi alla idealizzazione narcisistica dell’uomo ovunque questa si manifesti nei rapporti familiari, nell’amore, nella cura degli affari, nel desiderio sessuale, nell’edonismo del fallimento, nell’occupazione di una posizione eminente, e per ciò esposta, nella società e nei valori). Raramente un tema così ampio e complesso è stato trattato con tocco leggero e con discrezione elegante, nei toni sfumati di una luce incerta che lascia come nell’ombra il disegno generale dell’insieme (diciamo pure il “teorema” che regge il film, la precisione con cui ogni elemento della struttura e del racconto sviluppa una sorta di parabola sui rapporti umani possibili nei nostri giorni), e porta alla luce angoli, curve, dettagli, “lasciti” e tracce di una “cultura del femminile” ricca di sollecitazioni e suggerimenti che formicolano più di dubbi costruttivi che di certezze demolitorie. Il tema del declino di una cultura (e di una società) di rapporti umani e di rapporti materiali è sfiorato con la tenerezza della nostalgia, è raffigurato come smembramento silenzioso di un gruppo sociale (la “grande famiglia”) e come ricomposizione dei superstiti (le donne), senza che si senta il pregiudizio ideologico di una scelta di campo sovrimposta al racconto» (Grande).
ore 18.30
SI E’ RESO NECESSARIO UN CAMBIAMENTO DI PROGRAMMA, AL POSTO DI “ROMA ORE 11” PROIETTIAMO:
L’amore in città (1953)
Regia: Carlo Lizzani, Michelangelo Antonioni, Dino Risi, Federico Fellini, Francesco Maselli, Alberto Lattuada; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini, Aldo Buzzi, Luigi Chiarini, Luigi Malerba, Tullio Pinelli, Vittorio Veltroni, M. Antonioni, Marco Ferreri, A. Lattuada; fotografia: Gianni Di Venanzo; scenografia: Gianni Polidori; musica: Mario Nascimbene; montaggio: Erando Da Roma; interpreti: Rita Josa, Rosanna Carta, Antonio Cifariello, Livia Venturelli, Mara Berni, Valeria Moriconi; origine: Italia; produzione: Faro Film; durata: 114′
Film ad episodi, ideato da Zavattini, si rifà alle sue idee sul cinema. Il film lampo, l’inchiesta, il richiamo alla cronaca come fonte di storie ben più interessanti di quelle partorite dagli sceneggiatori sono le forme attraverso cui i sei autori affrontano il tema dell’amore. Antonioni indaga sui (tentati) suicidi d’amore, raccontati dagli stessi protagonisti, che ricostruiscono l’evento. «Ci tenevano – tranne forse due casi veramente toccanti – a farmi credere che avevano proprio voluto morire, e avevano ripetuto il gesto più volte e che, tutto sommato, erano stati scalognati a non riuscirci. […] Ho cercato di suscitare nel pubblico la ripugnanza del suicidio attraverso lo squallore spirituale dei personaggi» (Antonioni).
mercoledì 16
ore 17.00
Riso amaro (1949)
Regia: Giuseppe De Santis; soggetto: G. De Santis, Carlo Lizzani, Gianni Puccini; sceneggiatura: Corrado Alvaro, G. De Santis, Carlo Lizzani, Carlo Musso, Ivo Perilli, Gianni Puccini; fotografia: Otello Martelli; scenografia: Carlo Egidi; musica: Goffredo Petrassi; montaggio: Gabriele Varriale; costumi: Anna Gobbi; interpreti: Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Raf Vallone, Doris Dowling, Checco Rissone, Nico Pepe; origine: Italia; produzione: Lux Film; durata: 108′
Francesca, giovane cameriera d’albergo, istigata dal suo amante, Walter, ruba la collana di una cliente. Fuggono entrambi, e Francesca si mescola alle mondine, che partono in treno. Nel dormitorio delle mondariso, Francesca viene derubata della collana da una compagna, Silvana. Sul luogo del lavoro giunge Walter, il quale avendo appreso che Silvana è presumibilmente in possesso della collana, la circuisce. Silvana non è insensibile alle premure del lestofante e, abbandonato un sergente che l’ama, diviene l’amante di Walter, mentre il sergente fa la corte a Francesca, che si è pentita ormai del male fatto. Walter, avendo scoperto che la collana rubata è falsa, decide, per rifarsi, di rubare il riso accumulato nei magazzini come premio finale per le mondariso. Mentre le ragazze festeggiano la fine della stagione di lavoro, Walter convince Silvana ad immettere di nuovo l’acqua nei campi, per distrarre l’attenzione delle mondine e degli operai. Ma ha fatto i conti senza Francesca e il sergente…. «Le ragioni per le quali Riso amaro resta un caposaldo emblematico del periodo più fertile del cinema italiano – che possono aiutarci a capire meglio lo stesso fenomeno del neorealismo – sono assai forti. Fin dalla sua nascita il neorealismo sollevò, soprattutto tra i critici italiani, il problema di quanto fosse un movimento unitario, in che misura e perché autori tanto eterogenei […] e di umori così vari fossero visti dalla critica di tutto il mondo come parte di una scuola piuttosto omogenea: dal sofisticato Luchino Visconti al sanguigno De Santis, dal cronachistico Roberto Rossellini al patetico e appassionato Vittorio De Sica. E molti se lo domandano ancora oggi. Proprio Riso amaro (vi giocano la favola e la tranche de vie, il romanzo e il grand guignol, il corale e l’individuale) sembra raccogliere in sé alcune delle aporie più lampanti del neorealismo. Ma se Riso amaro fosse invece un pastiche sia pure geniale, il frutto di una semplice giustapposizione di motivi diversi? Se poi il neorealismo non esistesse, come taluni hanno voluto ribadire in questi ultimi decenni? […] Il rischio di una verifica di tali ipotesi su Riso amaro è alto, ma l’omogeneità del fenomeno Riso amaro è un fatto certo. Avrebbe altrimenti avuto, questo film, la capacità deflagrante – esso sì – di una bomba, se fosse soltanto una aggregazione aritmetica degli elementi che lo compongono? Riso amaro, insomma, come la più suggestiva metafora del neorealismo storico» (Lizzani).
ore 19.00
Le ragazze di Piazza di Spagna (1952)
Regia: Luciano Emmer; soggetto e sceneggiatura: Sergio Amidei; fotografia: Rodolfo Lombardi; scenografia: Mario Garbuglia; musica: Carlo Innocenzi; montaggio: Jolanda Benvenuti; interpreti: Lucia Bosé, Cosetta Greco, Marcello Mastroianni, Ave Ninchi, Leda Gloria, Liliana Bonfatti; origine: Italia; produzione: Astoria Film; durata: 99′
Marisa, Elena e Lucia, lavoranti d’una grande sartoria nelle vicinanze di Piazza di Spagna, sono legate da intima amicizia. Abitano alla periferia di Roma: Marisa alla Garbatella, Elena a Monteverde, Lucia alle Capannelle. Marisa, di famiglia proletaria, è fidanzata con un operaio che minaccia di lasciarla quando inizia a fare l’indossatrice. Elena è promessa ad un impiegato: quando scopre che il fidanzato non l’ama veramente, ma mira solo al modesto appartamento in cui vive con la madre, la delusione la turba tanto da indurla a tentare il suicidio. L’amore di un onesto autista di piazza la salverà dalla disperazione. Lucia che è piccina, si sente particolarmente attratta dai giovanotti d’alta statura e non si cura di un piccolo ed esile fantino, che l’ama da anni… «La personalità del regista […] si va sempre meglio delineando, nei suoi limiti e nelle sue risorse. I suoi limiti sono segnati dall’esilità della sua vena crepuscolare, affabile del resto e maliziosa. Le sue risorse sono costituite dalla delicatezza del tocco, dalla levità dei suoi estri e dalla freschezza delle sue percezioni visive e psicologiche che col loro brio danno una specie di spuma» (Mario Luzi).
ore 21.00
Io la conoscevo bene (1965)
Regia: Antonio Pietrangeli; soggetto e sceneggiatura: A. Pietrangeli, Ruggero Maccari, Ettore Scola; fotografia: Armando Nannuzzi; scenografia e costumi: Maurizio Chiari; musica: Piero Piccioni; montaggio: Franco Fraticelli; interpreti: Stefania Sandrelli, Enrico Maria Salerno, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Mario Adorf, Jean-Claude Brialy; origine: Italia/Francia/Germania; produzione: Ultra Film, Le Film du Siècle, Roxy Film; durata: 122′
Adriana, una bella ragazza di campagna, dal Pistoiese si trasferisce a Roma in cerca di fortuna. Comincia a lavorare come domestica, poi fa la parrucchiera, quindi la maschera in un cinema, poi la cassiera in un bowling. Credulona, ingenua, ignorante, attratta soltanto dai dischi e dal ballo, mentre passa da un mestiere all’altro, subisce con indifferenza e con amoralità ogni compagnia maschile che le si presenta. Ma il suo non è calcolo, bensì fragilità, incoscienza e bisogno d’affetto. Di lei tutti approfittano, ma Adriana non se ne accorge e, nonostante tutto, piena di speranza, affida il denaro guadagnato a un ambiguo agente che le profila la possibilità di fare del cinema. In realtà, Adriana non farà che alcuni inserti pubblicitari; prenderà parte come comparsa ad un film mitologico; presenterà qualche vestito in teatrini di provincia. Né la nostalgia del paese d’origine, né l’interruzione di un’incipiente maternità riusciranno a salvarla. «Io la conoscevo bene, diranno tutti coloro che si sono serviti della sua freschezza; al contrario, nessuno aveva penetrato nella confusa realtà dove nemmeno lei sapeva orientarsi […]. Non è soltanto la storia d’una provinciale bruciata […] è anche un segnale d’allarme per chi si creda […] in diritto di scagliare una pietra, assolvendosi con la pietà. Il film ha difetti […] ma non tali da mettere in pericolo la solidità della struttura […]. L’interpretazione della Sandrelli […] ha […] una buona spontaneità di riflessi, sempre al livello di una naturalezza priva di retroterra culturale. Dei molti uomini […] si devono ricordare almeno Tognazzi, nella sua parte d’un guitto […] e Manfredi, che disegna un’equivoca figura di talent scout» (Grazzini).
giovedì 17
ore 17.00
L’aria serena dell’Ovest (1989)
Regia: Silvio Soldini; soggetto: S. Soldini, Paola Candiani; sceneggiatura: Silvio Soldini, Roberto Tiraboschi; fotografia: Luca Bigazzi; scenografia e costumi: Daniela Verdenelli; musica: Giovanni Venosta; montaggio: Claudio Cormio; interpreti: Patrizia Piccinini, Fabrizio Bentivoglio, Antonella Fattori, Ivano Marescotti, Silli Togni, Roberto Accornero; origine: Italia; produzione: Monogatari, Pic Film, Radio Televisione Svizzera Italiana; durata: 110′
Un’agendina che passa di mano in mano fa incrociare le vite di quattro persone nella “Milano da bere” di fine anni Ottanta. Mentre all’Est sfilano i carri di Tienanmen e crolla il Muro di Berlino, una piccola umanità si sfiora, si incontra, si perde senza che nulla – o quasi nulla – riesca a cambiare. È una tranquilla alienazione, è L’aria serena dell’Ovest. «Storia di un’agendina smarrita, tramite grazie al quale vari personaggi s’incontrano, si sfiorano, tentano di entrare in contatto. Racconto minimalista sul giuoco del caso e del desiderio nella vita quotidiana di una Milano dai colori freddi […] come raramente s’era vista al cinema. Con lo sguardo di un documentarista Soldini innesta con sapienza la fiction nella precisione sociologica dei comportamenti, tracciando il grafico di un malessere generazionale. L’infermiera di P. Piccinini è una delle figure femminili più vive dell’ultimo cinema italiano» (Morandini).
ore 19.00
Del perduto amore (1998)
Regia: Michele Placido; soggetto e sceneggiatura: M. Placido, Domenico Starnone; fotografia: Blasco Giurato; scenografia: Paola Comencini; costumi: Claudio Cordaro; musica: Carlo Crivelli; montaggio: Francesca Calvelli; interpreti: Giovanna Mezzogiorno, Fabrizio Bentivoglio, Rocco Papaleo, Sergio Rubini, Enrico Lo Verso, M. Placido; origine: Italia; produzione: Clemi Cinematografica, Rai-Cinemafiction ; durata: 101′
Lucania, 1958. Gerardo, espulso dal collegio per sospetta omosessualità, è coinvolto da Liliana, giovane militante comunista, nell’apertura di una scuola per ragazze analfabete, iniziativa osteggiata dai galantuomini della DC, alleata con l’MSI, e non gradita al PCI. La scuola è incendiata dai fascisti locali cui si unisce Gerardo, ingelosito dalla relazione di Liliana con il medico del paese. Dopo le elezioni dove riceve molti voti, Liliana muore di aneurisma. Al suo funerale, nonostante l’ostracismo del parroco, partecipano tutte le donne del paese. Ispirata alla vera vicenda di Liliana Rossi, vissuta ad Ascoli Satriano (FG) e morta a ventiquattro anni, la storia è rievocata da Gerardo adulto, divenuto sacerdote. «Quello di Michele Placido sembra un film in costume per come ci trasporta in un’Italia che pare lontanissima. Placido ha ricostruito un Sud duro e struggente. Giovanna Mezzogiorno è bravissima nel calarsi nei panni di Liliana, questa ragazza che si inventa dal nulla una scuola “alternativa2 per i bambini poveri del suo paesello, e si batte contro la grettezza dei notabili democristiani ampiamente sostenuti, quasi 15 anni dopo la Liberazione, dagli ex fascisti: una vicenda politica che diventa anche un romanzo di formazione, vista attraverso gli occhi di un ragazzino che anni dopo – lo vediamo, nel prologo, interpretato dallo stesso Placido – diventerà un parroco da combattimento» (Crespi).
ore 21.00
Giorni e nuvole (2007)
Regia: Silvio Soldini; soggetto: Doriana Leondeff, Francesco Piccolo, S. Soldini; sceneggiatura: Doriana Leondeff, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli, S. Soldini; fotografia: Ramiro Civita; scenografia: Paola Bizzarri; musica: Giovanni Venosta; montaggio: Carlotta Cristiani; interpreti: Margherita Buy, Antonio Albanese, Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston, Carla Signoris, Fabio Troiano; origine: Italia; produzione: Lumière & Co., Amka Films Productions, RTSI; durata: 116′
Elsa e Michele hanno una figlia di vent’anni e vivono una vita agiata e serena. Elsa ha potuto anche realizzare il sogno di lasciare il lavoro per dedicarsi allo studio della storia dell’arte. Proprio subito dopo la sua laurea, quando Elsa si sente finalmente appagata, arriva un fulmine a ciel sereno: Michele confessa di essere stato estromesso dalla società da lui fondata e di essere senza lavoro da due mesi. Elsa, nonostante tutto, riesce a fronteggiare la situazione ritrovando in sé un’insospettata energia, mentre Michele passa dall’euforia alla depressione a seconda di come procede la sua ricerca di lavoro. Il rapporto tra i due si incrina tanto da arrivare alla rottura, ma poi entrambi si rendono conto di non voler perdere l’unica cosa preziosa che hanno: il loro amore. Li aspetta ancora un lungo percorso di vita insieme. «Giorni e nuvole non è un film, sono tre film uno dentro l’altro, a costruire un racconto dall’equilibrio perfetto. Il primo film appartiene al piccolo Wenders: è uno sguardo metafisico su Genova, sui suoi spazi, sulle sue aperture fisiche e mentali magnificamente fotografate dall’operatore Ramiro Civita, lo stesso della Ragazza del lago. Il secondo è un film sociale. […] Il terzo, forse quello al quale Soldini tiene di più, è un film d’amore. […] Le scene più belle del film sono forse quelle in cui Michele, assieme a due suoi ex operai anche loro a spasso, fa lavoretti da muratore e scopre cosa si prova a lavorare davvero. Intorno a loro c’è una Genova dove il terziario sembra in crisi quanto la vecchia industria portuale, e un disoccupato quasi si vergogna di esultare quando lo riprendono al cantiere. Su tutto aleggia una musica arabeggiante che sembra suggerire come Genova non sia poi così diversa da Algeri, Beirut o Alessandria D’Egitto, da altre metropoli mediterranee che nella nostra ottusa mentalità appartengono al terzo mondo. Elsa e Michele sono Margherita Buy e Antonio Albanese: fenomenali. Esiste un quarto Soldini, il direttore d’attori, che ormai non ha più nulla da imparare» (Crespi).
Elsa e Michele hanno una figlia di vent’anni e vivono una vita agiata e serena. Elsa ha potuto anche realizzare il sogno di lasciare il lavoro per dedicarsi allo studio della storia dell’arte. Proprio subito dopo la sua laurea, quando Elsa si sente finalmente appagata, arriva un fulmine a ciel sereno: Michele confessa di essere stato estromesso dalla società da lui fondata e di essere senza lavoro da due mesi. Elsa, nonostante tutto, riesce a fronteggiare la situazione ritrovando in sé un’insospettata energia, mentre Michele passa dall’euforia alla depressione a seconda di come procede la sua ricerca di lavoro. Il rapporto tra i due si incrina tanto da arrivare alla rottura, ma poi entrambi si rendono conto di non voler perdere l’unica cosa preziosa che hanno: il loro amore. Li aspetta ancora un lungo percorso di vita insieme. «Giorni e nuvole non è un film, sono tre film uno dentro l’altro, a costruire un racconto dall’equilibrio perfetto. Il primo film appartiene al piccolo Wenders: è uno sguardo metafisico su Genova, sui suoi spazi, sulle sue aperture fisiche e mentali magnificamente fotografate dall’operatore Ramiro Civita, lo stesso della Ragazza del lago. Il secondo è un film sociale. […] Il terzo, forse quello al quale Soldini tiene di più, è un film d’amore. […] Le scene più belle del film sono forse quelle in cui Michele, assieme a due suoi ex operai anche loro a spasso, fa lavoretti da muratore e scopre cosa si prova a lavorare davvero. Intorno a loro c’è una Genova dove il terziario sembra in crisi quanto la vecchia industria portuale, e un disoccupato quasi si vergogna di esultare quando lo riprendono al cantiere. Su tutto aleggia una musica arabeggiante che sembra suggerire come Genova non sia poi così diversa da Algeri, Beirut o Alessandria D’Egitto, da altre metropoli mediterranee che nella nostra ottusa mentalità appartengono al terzo mondo. Elsa e Michele sono Margherita Buy e Antonio Albanese: fenomenali. Esiste un quarto Soldini, il direttore d’attori, che ormai non ha più nulla da imparare» (Crespi).