Home > Eccentrico italiano: Estati romane
Eccentrico italiano: Estati romane
18 Marzo 2012 - 18 Marzo 2012

Forse perché d’estate si moriva davvero e con fatica. Da soli, in una metropoli, magari particolare come Roma, svuotata, diversa, desertificata. Ora che le città rimangono piene tutto l’anno, le cosiddette estati romane sono diventate al cinema irrappresentabili. I tre film qui proposti per Eccentrico italiano sono ben distanti dalle commedie del “marito in città e la moglie in vacanza”, rappresentando invece il controcanto cinico della cosiddetta Estate romana di nicoliniana memoria. Ne Il giorno dell’Assunta (1977), opera d’esordio di Nino Russo, ci troviamo di fronte a una Roma post-atomica, in cui due personaggi beckettiani nella giornata di Ferragosto vagano per le vie deserte della città con frasi ritornello del tipo: «Dove vai?». «Al cinema». «A vedere cosa?». «Quo vadis». «Che significa?». «Dove vai» «Al cinema»… Roma diventa un non luogo, un cimitero di resti della cosiddetta civiltà del benessere, dove anche la stessa tragedia ha perso qualsiasi connotazione epica per trasformarsi nel grottesco e nell’assurdo di rituali meccanici e senza senso. In fondo, il film come ha dichiarato il regista è una «metafora sulla condizione di chi, sradicato dalla propria cultura e immesso in un contesto che lo respinge, perde i legami con la realtà» È invece una vera e propria via crucis quella di Gerry «(Sperandini, che interprete sé stesso), biondo vichingo tossicodipendente e schizofrenico che si proclama imperatore (e camminatore) di una città senza più impero né dignità», come scrive giustamente Morandini. In una Roma degradata, già raccontata da Pasolini in Accattone, vive, tra rovine, immondizie, drogati e prostitute, una sorta di Cristo laico, simile nel suo essere perdente ad una altra figura cristologica, quella di Mario Stracci de La ricotta. La grandezza del film risiede, come notava Lorenzo Pellizzar,i nel non cadere nella trappola del melò: «La patologia ci è risparmiata insieme al patetismo». In fondo Gerry «non è un personaggio, ma una rovina (umana) tra le tante. Il neorealismo tornò nel cinema italiano negli ultimi anni ’80 come un fantasma espressionista» (Morandini). Se ne Il giorno dell’Assunta alcuni monumenti capitolini sono rappresentati attraverso gigantografie in stile teatrale, l’itinerario de L’imperatore di Roma ruota spesso e volentieri attorno al Colosseo, la Roma di Estate romana è una città impacchettata (ma non da Christo!), un cantiere chiuso, in preparazione del Giubileo. Una città reliquia per un film già post sul nascere, dove i corpi attoriali di Rossella Or, Victor Cavallo sono dei commoventi e teneri residuati bellici dell’avanguardia teatrale, e non solo, degli anni Settanta. E il mappamondo che lo scenografo Salvatore cerca inutilmente di collocare in qualche posto rappresenta la metafora di una generazione senza più agenzia di collocamento.

 
ore 17.00
Estate romana (2000)
Regia: Matteo Garrone; soggetto: M. Garrone; sceneggiatura: Massimo Gaudioso, M. Garrone, con la collaborazione di Attilio Caselli; fotografia: Gian Enrico Bianchi; scenografia: Paolo Bonfini musica: Banda Osiris; montaggio: Marco Spoletini; interpreti: Rossella Or, Monica Nappo, Salvatore Sansone, Victor Cavallo, Simone Carella, Rosellina Neri; origine: Italia; produzione: Archimede, Bianca Film, con la partecipazione di Tele +; durata: 94′
«Un ex avvocato diventato pigro scenografo (Salvatore Sansone) prepara un grande mappamondo e alcuni pianeti trasparenti per uno spettacolo estivo (e qui si sfotte Guerre stellari, anzi i suoi idolatri), con l’aiuto di Monica (Nappo), anche lei originaria di Napoli, una figlia da crescere e una suocera da zittire, e che lui ama senza convinzione, coraggio, tecnica seduttiva e speranza, anche perché quasi sicuramente non riamato. Arriva la proprietaria della casa, cui Salvatore deve alcuni bei mesi d’affitto, Rossella (Or), un’attrice di punta della scena off anni ’70, nella imitazione spassosa dei suoi arabeschi gestuali e della sua imperiosa vocalità, svanita negli anni chissà dove e chissà come e adesso scollata da questa città («come faccio a non scomparire?»), e i tre inanellano avventure e piaceri tragicomici che li porteranno alla ricerca di un introvabile stabilimento balneare, a un collasso, a una morte da coito, a un quasi linciaggio…» (Silvestri). «Fulminato dalla bellezza del racconto Barthleby lo scrivano di Melville, che sembra riproporre (a New York) la vita di tanti impiegati romani molto “speciali”, per intrecciare più motivi in quel crogiolo di razze di mondi ho scelto piazza Vittorio, la nostra difficile “New York” ricca di vite segrete, sempre affollata da tanti colori ed etnie anche quando la città si svuota. E se le impalcature fossero le nuove quinte teatrali della vita, delle fughe, dei ritorni della città?» (Garrone).
 
ore 19.00
L’imperatore di Roma (1988)
Regia: Nico D’Alessandria; soggetto e sceneggiatura: N. D’Alessandria; fotografia: Roberto Romei; scenografia e costumi: R. Romei; musica: Al Lunati, Carlo Giugni; montaggio: N. D’Alessandria; interpreti: Gerardo Sperandini, Nadia Haggi, Giuseppe Amodio, Agnese De Donato, Fulvio Meloni; origine: Italia; produzione: N. D’Alessandria; durata: 89′
«Gerry vive a Roma, dormendo in squallide pensioni e camminando senza meta per la città. Vive in solitudine, per unica compagna la droga. Evitato dai “bravi” cittadini, poco considerato dagli amici, egli immagina la sua fine, come un moderno “Accattone” o con una siringa conficcata nel braccio» (Poppi). «Ricordate Accattone di Pasolini? Muore per un banale incidente di motocicletta alla curva del ponte del Mattatoio. In quella stessa curva cade l’imperatore di Roma ma si rialza imprecando, pronto a riprendere la strada a piedi. Il suo nome è Gerry ma forse è più giusto pensarlo Nerone o Commodo. Anche lui desidera trovare la morte nell’arena (magari per un buco di addio). Anche lui ama Roma, di un amore-odio e vorrebbe distruggere il Colosseo a picconate. Conosciuto il personaggio e scritta la sceneggiatura, mentre passavano gli anni in attesa di ottenere i finanziamenti dello stato, il povero Gerry finiva riconosciuto pericoloso socialmente e rinchiuso ad Aversa. Qui nasce il cult-movie. Nico D’Alessandria aspetta tre anni, scrive a Gerry 48 lettere e ne riceve 171. Si occupa di lui nel tentativo di ricucire il tessuto familiare strappato e rifiuta di realizzare il film con un attore diverso dal suo imperatore. Crede che la fatica di fare cinema possa ripagarsi meglio se aiuta un Gerry qualsiasi a riconoscere la strada per uscire dall’inferno. Raccontare un film o raccontare la vita? L’importante è raccontare… E Roma? Già … Roma! Roma in bianco e nero, per giocare con il chiaroscuro più che con i colori. Degradata e splendida. Roma Tevere e polvere, luogo di ogni delirio e set cinematografico. Protagonista e oggetto di sberleffo» (D’Alessandria).
 
ore 20.45
Il giorno dell’Assunta (1977)
Regia: Nino Russo; soggetto e sceneggiatura: N. Russo; fotografia: Mario Masini; scenografia: Renato Mercuri; musica: Gianni Marchetti; montaggio: Mario Gargiulo; interpreti: Tino Schirinzi, Leopoldo Trieste; origine: Italia; produzione: Celimontana; durata: 102′
Roma, ferragosto. Strade deserte. Due amici si incontrano e cominciano a vagare per la città. Discutono, tra luoghi comuni, gag, cavalli di battaglia, echi ricorrenti dell’emigrazione meridionale, citano Campanella e Carlo Levi, ascoltano cassette, si aggirano tra sfasciacarrozze e Cinecittà, sempre più lontano dal centro, sradicati in periferia, nella campagna romana, lungo il Tevere, fino al ritorno nella città che si è ripopolata, dove sono ancora più estranei, stranieri a se stessi e agli altri. Straordinaria invenzione, anzitutto linguistica, con i duetti fra due grandissimi attori, mai pienamente valorizzati dal cinema: Leopoldo Trieste e Tino Schirinzi, le cui origini, rispettivamente calabresi e pugliesi, l’accento, l’eloquio, la contrapposizione dei caratteri, la stessa presenza fisica li rendono perfetti per una delle più originali operazioni realizzate nel cinema italiano. «Il giorno dell’Assunta di Nino Russo è una scommessa vinta. Il regista, al suo esordio, ha affrontato un film privo di qualunque intreccio, basato su pochissimi elementi; due attori, Roma deserta, rumori e parole in libertà. Le maschere, mobili e duttili, di Schirinzi e di Trieste e l’occhio del bravissimo operatore Masini, che sa trarre parecchie suggestioni dallo scenario romano, sono i suoi punti di forza. Il gioco di Russo, che poteva riuscire quanto mai noioso, risulta nel complesso simpatico» (Bolzoni).

 

 

Date di programmazione