Il Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale presenta alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone (3-10 ottobre 2009) tre film di Francesca Bertini
03 Ottobre 2009 - 10 Ottobre 2009
In occasione della XXVIII edizione de Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone (3-10 ottobre), il Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale presenta, nella sezione “Dive”, tre pellicole con Francesca Bertini: Mariute di Eduardo Bencivenga (1918), Marion artista di caffè concerto di Roberto Leone Roberti (1920), e l’edizione restaurata di Amore senza stima di Baldassarre Negroni (1912). Nella stessa sezione verrà proiettato il film tedesco Wenn das Herz in Hass erglüht (Vampa d’odio) di Kurt Matull (1917) con protagonista Pola Negri.
AMORE SENZA STIMA [L’AVVOLTOIO?] (Celio Film Roma, 1912)
Regia: Baldassarre Negroni; fotografia.: Giorgio (Giorgino) Ricci; produzione: Celio Film, Roma, 1912. Cast: Francesca Bertini (Maria), Emilio Ghione (il seduttore), Alberto Collo (uomo nel bar), Noemi de’ Ferrari (la fidanzata), Angelo Gallina (il maggiordomo); data di disponibilità della copia: dicembre 1912; 35mm, l.o. presunta: 1066m; l. copia: 817m, l. attuale: 917m; 47′ (17 fps); fonte copia: Cineteca Nazionale, Roma. Didascalie in italiano.
97 anni dopo la sua realizzazione, il film della Bertini è stato recuperato dalla Cineteca Nazionale e restaurato con la tecnologia più aggiornata. Protagonisti un istrionico Emilio Ghione e una giovanissima e naturale Francesca Bertini, il film è stato oggetto di equivoci nella storiografia cinematografica italiana. Narra la storia di Maria (il nome è stato reperito da Riccardo Redi, da fonti non precisate), giovane dattilografa che si innamora di un distinto gentiluomo. Rimane incinta, senza sapere che l’uomo è sposato. Il gentiluomo – assillato dai debiti prodotti dalla sua vita dissipata – dipende dalla moglie, ricca, e non intende sposare la povera ragazza. Dopo aver rifiutato il denaro che gli viene offerto come riparazione al disonore, Maria prosegue il suo vagare disperato, con il bambino in braccio, finché decide di accettare le profferte di uno sconosciuto con l’unico scopo di comprare un’arma per vendicarsi.
In questa storia trasgressiva, capolavoro del primo naturalismo del cinema romano, la protagonista si prostituisce per farsi giustizia da sola, eroina col bambino in braccio e la pistola in pugno. La Celio Film era marchio della Cines, fondato nel 1912, orientato alla produzione di qualità intesa come raffinamento nella messa in scena e realismo nelle storie di argomento contemporaneo, all’epoca fuori dai «canoni di mercato». I drammi editi dalla «valente Casa» furono salutati come «la fedele ed artistica espressione della vita», secondo il redattore della rivista «La vita cinematografica». Nel contempo conservano una certa freschezza e trasparenza dovute agli originali soggetti, alla sapiente direzione artistica che, insieme a una delicata direzione della fotografia e nonostante i limitati mezzi di produzione, riusciva a ottenere momenti unici dai suoi attori. La copia a noi pervenuta reca il titolo Amore senza stima e data del 1923, epoca in cui Francesca Bertini, da diva, si era ritirata dallo schermo. Poiché il pubblico rivedeva volentieri i suoi vecchi successi, il film probabilmente è frutto di un’operazione di rimontaggio, effettuato eliminando alcune didascalie; resta incerto il titolo con cui fu inizialmente distribuito. La ricerca preparatoria al restauro ci permette di escludere che si tratti del film fino a questo punto individuato, e cioè La bufera (1913). L’ipotesi più plausibile è che si tratti invece di un altro film di Baldassarre Negroni, annunciato verso la fine del 1912, L’avvoltoio, oppure L’avvoltoio nero (come rilanciato nel 1913), soprattutto per la caratterizzazione del personaggio di Emilio Ghione, l’attore che alcune fonti segnalano come aiuto-regista o addirittura regista. Il film contiene alcuni elementi che permettono di accomunarlo ad Amore senza stima, un dramma teatrale di Paolo Ferrari: il rapporto tra il giocatore e la moglie, specialmente per quanto riguarda il crimine. Lo stesso dramma di Ferrari servì d’ispirazione a un film della Cines, del 1914.
Per il restauro eseguito al laboratorio Prestech di Londra ci si è basati sull’unica copia esistente, rinvenuta quasi senza didascalie e più volte rimaneggiata. L’acquisizione è stata realizzata a 4K ed è stata effettuata una lavorazione digitale preferibile per il grave stato della pellicola. Sono stati aggiunti alcuni intertitoli, sia allo scopo di facilitare la comprensione della storia, che di creare cesure temporali nel racconto, piuttosto ellittico, nello stile asciutto delle poche didascalie sopravissute. Le colorazioni sono state effettuate col Metodo Desmet.
MARIUTE
(Bertini Film per Caesar-Film, 1918) Regia: Edoardo Bencivenga; soggetto: Robert Des Flers; fotografia: Giuseppe Filippa; scenografia: Alfredo Manzi; produzione: Bertini Film per Caesar Film, Roma, 1918.
Cast: Francesca Bertini (se stessa e Mariute), Gustavo Serena, Livio Pavanelli, Camillo De Riso (se stessi), Alberto Albertini (il reduce); visto di censura: n. 13506 del 1/05/1918; prima visione romana: 17/05/1918; 35mm, lunghezza originale: 743m; lunghezza attuale (copia d’archivio): 564m; durata 27′ 49″; velocità di proiezione: 18 fps; bianco e nero. Didascalie in italiano.
«Cinedramma in due parti», in realtà film di propaganda a metà tra realtà e finzione, del tutto inconsueto per l’epoca, Mariute presenta lo stridente contrasto tra la giornata tipo della diva Francesca Bertini, che giunge sul set a mattina alta, dopo aver fatto attendere a lungo la troupe, e il dramma di Mariute, una contadina friulana, che, sola con tre bambini, con il marito in guerra, subisce violenza da tre soldati austriaci e viene vendicata dal suocero.
Le due situazioni sono legate dal filo tenue del sogno: Francesca Bertini, dopo aver ascoltato sul set i racconti di un attore reduce dal fronte, rimane turbata e sogna le vicende della povera contadina vittima della guerra, immedesimandosi in lei e proponendosi, in uno slancio di patriottica solidarietà, di alzarsi prima al mattino e di presentarsi sul set con «appena mezz’ora di ritardo».
Di questo film Francesca Bertini non solo è protagonista assoluta, ma anche produttrice, con la casa di produzione che nella denominazione contiene il suo stesso cognome (d’arte), la Bertini Film, e che, dal 1918 al 1925, realizzò ben venticinque opere. In realtà, da quanto si evince in Vittorio Martinelli, Il cinema muto italiano, 1918, I film della Grande Guerra, in «Bianco e Nero», Roma: CSC-Nuova Eri, anno L, nn. 1-2 1989, rist. 1991, p. 141), Mariute fu probabilmente commissionato dall’Istituto Nazionale delle Assicurazioni e doveva contenere un epilogo, andato perduto, in cui la stessa Bertini invitava gli spettatori ad acquistare i buoni dell’INA per sostenere lo sforzo bellico.
MARION ARTISTA DI CAFFÈ-CONCERTO (Bertini Film/U.C.I., Roma, 1920)
Regia: Roberto Roberti; adattamento e sceneggiatura: Vittorio Bianchi; soggetto: dal romanzo diAnnie Vivanti (1891); fotografia: Giuseppe Alberto Carta; scenografia: Alfredo Manzi.
Cast: Francesca Bertini (Marion), Mario Parpagnoli (Mario Stena), Giorgio Bonaiti (Max Fredberg), Mary Fleuron (Anna Krauss); data uscita: 27/12/1920; lunghezza originale: 2019 m.; 35mm; lunghezza copia attuale: 982 m., 53′ (16 fps), colore. Didascalie in italiano / Italian intertitles.
Preservato nel 2000 a cura della Cineteca Nazionale sulla base di un positivo d’epoca largamente incompleto e colorato con imbibizioni e viraggi, questo film viene ora presentato dopo un tentativo di ricostruzione basato su fonti d’epoca e, per quanto possibile – considerate le differenze introdotte nell’adattamento cinematografico – sul romanzo di Annie Vivanti da cui è tratto.
La vicenda è quella della piccola Marion, che, rimasta orfana della madre, canzonettista morta di tisi, ne ripercorre le orme e cresce dietro le quinte, destreggiandosi nel corrotto e licenzioso mondo del cafè-chantant. Marion diviene rapidamente una stella e ha molti corteggiatori. Tra questi, un vecchio commendatore, che la prende come protetta, e un giovane poeta squattrinato, Mario, con cui intreccia una relazione. Ben presto, però, il poeta raggiunge in Germania l’amico Max, che lo presenta a un editore, e stringe una promessa di matrimonio con Anna, la figlia di quest’ultimo. Tornato in Italia, Mario riprende l’idillio con Marion e le chiede di sposarlo, ma la giovane, pur profondamente innamorata, respinge la sua proposta perché sente che entrambi tradirebbero le rispettive arti, il palcoscenico e la poesia. Mario parte ancora per la in Germania e lì sposa Anna, mentre Max, che aveva accompagnato in Italia l’amico poeta, rimane vicino a Marion e se ne innamora. Marion, che accusa i primi sintomi della tisi, aspetta con disperata tenacia il ritorno di Mario. Dopo un po’ di tempo, il poeta si ripresenta a Roma in compagnia della moglie ma, ancora invaghito di Marion, ha con lei un incontro notturno, al termine del quale le confessa di essersi sposato. Marion chiede solo di poter vedere “l’altra”, invitando la coppia in teatro per la serata in suo onore. Dopo lo spettacolo si consuma l’epilogo: Anna s’introduce per curiosità nel camerino dell’artista e Marion, nel diverbio che segue, afferra un fermacarte, regalo di Mario, e la colpisce, uccidendola. Max entra in camerino, vede la scena e coglie la disperazione di Marion, che invoca la madre morta stringendo un medaglione con la sua immagine. Vedendolo, Max scopre, atterrito, di essere il padre di Marion e prende su di sé la colpa dell’omicidio: «Sono stato io,…va’… e canta!»…
La copia conservata dalla Cineteca Nazionale s’interrompe qui e la ricostruzione del finale è problematica. Nella sinossi ricostruita da Vittorio Martinelli la fine del film presenta un coup de théatre, perché Marion, entrata in palcoscenico, non riesce a cantare perché soffocata dal sangue (Vittorio Martinelli, Il cinema muto italiano, 1920, in «Bianco e Nero», Roma: CSC – Nuova Eri, anno XLI, Luglio/Dicembre 1980, rist. 1995, p. 196). Il racconto termina dversamente nella trama pubblicata in una rivista d’epoca, con Marion che «fugge mentre il pubblico ancora l’acclama». (Marion, di Annie Vivanti. Interpretazione di: Francesca Bertini, «Lux. Rivista Internazionale dell’Industria Cinematografica», Roma, anno III, n. 2, febbraio 1921, p. 75) e questo finale troverebbe anche una conferma nel romanzo, che si chiude con l’esortazione di Max a Marion: «Va’ presto, va’ e canta. Ed essa andò». Entrambi i finali sono plausibili e supportati da fonti autorevoli. Nell’edizione che si presenta al Festival di Pordenone si è scelto di inserire un cartello in cui si dà conto di entrambi.
Meritano un cenno le vicende di censura di Marion artista di caffè-concerto. Per l’argomento passionale e scabroso il film fu approvato “con riserva”, a condizione che venissero soppresse e/o sostituite alcune didascalie. La prima didascalia soppressa («No, è la bocca che voglio», inclusa nella prima parte del film) appartiene a un episodio della gavetta di Marion (molto lacunoso nella copia conservata), in cui la ragazza si accorda con l’impresario, vecchio e vizioso, e si lascia baciare sulla bocca. Nel secondo caso le modifiche introdotte dalla censura, riguardanti due delle ultime didascalie del film, cambiano radicalmente la psicologia dei personaggi, rendendo Marion meno spietata e Max spontaneamente consapevole del proprio errore di gioventù e non sottomesso alla volontà della giovane. Nelle didascalie originali, infatti, Marion istiga Max ad autoaccusarsi dell’omicidio di Anna («Sei stato tu! sei stato tu! tu la volevi, ti ha resistito e l’hai uccisa», sostituita con un «Sei stato tu!»), mentre Max ammette passivamente: «Sì, sono stato io, va’ e canta». In questo punto la censura chiede di eliminare il “Sì”, perché risultasse che «il padre si accusa spontaneamente dopo aver riconosciuto la figlia, e non per istigazione di questa». (Trascrizione delle condizioni di censura in: Vittorio Martinelli, Il cinema muto italiano, 1920, in «Bianco e Nero», Roma: CSC – Nuova Eri, anno XLI, Luglio/Dicembre 1980, rist. 1995, p. 198).
WENN DAS HERZ IN HASS ERGLÜHT (Saturn-Film AG, Berlin, 1917)
Titolo italiano Vampa d’odio
Regia: Kurt Matull; fotografia: Otto Jäger; Cast: Pola Negri (Hilka), Tilli Bébé (lydia Bébé), Harry Hopkins (il direttore del circo), Hans Adalbert Schlettow (Holzer), Magnus Stifter (Ilfingen), Anna von Palen (la madre di Ilfingen).
Visto di censura tedesco del 01/11/1917, visto di censura italiano n. 15541 del 18/11/1920. Lunghezza visto di censura italiano 1350 metri, lunghezza copia: 993 metri. Imbibito, didascalie in italiano
La ballerina Hilka, innamorata di Ilfingen, un barone dedito al gioco, lascia il circo in cui lavora. La donna è corteggiata anche da Holzer, che, per rovinare Ilfingen, chiede a Hopkins, il padrone del circo, di aiutarlo a incastrare Ilfingen, accusandolo ingiustamente di aver barato. Hopkins accetta perché vuole far tornare Hilka a lavorare per lui. Il barone viene, però, scagionato da Lidma, la compagna del direttore del circo, che rivela tutto alla polizia. Lidma, a sua volta, gelosa di Hilka, decide di ucciderla liberando un coccodrillo nella casa della ballerina, che sarà salvata dal suo serpente in una spettacolare lotta. Hilka potrà così finalmente ritrovare l’amore del barone.
Il nitrato imbibito con didascalie in italiano, conservato presso la Cineteca Nazionale, è incompleto. La copia, infatti, mancante della prima parte, comincia dalla didascalia 21. Inizialmente fu scambiata per il film polacco Jego Ostatni Cyzn, di Stanislaw J. Kozlowski (1917). Solo di recente è stata identificata comeWenn das Herz in Hass erglüht e quindi corredata di nuovi cartelli.