Ricordando Luciano Martino
22 Dicembre 2017 - 22 Dicembre 2017
Negli anni Sessanta e Settanta, nel pieno del furore creativo e realizzativo del cinema italiano, capace di sfornare centinaia di film l’anno e di attraversare ogni genere, non solo gli autori, ma anche i produttori avevano un’identità precisa: chi era votato alla commedia, chi al cinema drammatico, chi al cinema indipendente, c’era persino chi si era specializzato negli esordi (o negli art. 28…). Luciano Martino, con la sua Dania Film e la consorella Devon Cinematografica, è stato il produttore dell’ultimo cinema italiano veramente popolare, nelle sue molteplici varianti (il thriller, il thriller erotico -, una sua creatura produttiva con il grande successo de Il dolce corpo di Deborah di Romolo Guerrieri -, la commedia sexy). Ma Luciano Martino è stato anche un prolifico sceneggiatore dal 1955 al 1965 (La finestra sul luna park di Comencini, Giovani mariti di Bolognini, La ragazza del palio di Zampa, Il colosso di Rodi di Leone, La ragazza in vetrina di Emmer, Tiro al piccione di Montaldo, La frusta e il corpo di Bava) e, sporadicamente, regista, tra film di genere (alcuni codiretti con Mino Loy, altra figura in bilico tra regia e produzione), e incursioni autoriali (Nel giardino delle rose e In camera mia).
La Cineteca Nazionale è lieta di ricordare Luciano Martino, a quattro anni dalla scomparsa, con la proiezione di tre film d’autore prodotti da Luciano.
ore 16.30 Tempo di uccidere di Giuliano Montaldo (1989, 112′)
«Avevo letto il romanzo di Flaiano a diciassette-diciotto anni. Quando poi mi avvicinai al cinema, rimase sempre un sogno nel cassetto. Tanti anni dopo, completato il mio percorso in quella che definirei “sofferenza per l’intolleranza”, Tempo di uccidere rispuntò nel cassetto da cui era chiuso. Rilessi tutto quello che aveva scritto Flaiano, […] e poi scrissi il film assieme a Furio e a Giacomo Scarpelli, e a un giovanissimo Paolo Virzì. Gli italiani – raccontava – erano partiti per l’avventura coloniale con l’illusione di andare a vivere in un film in bianco e nero della Paramount, con i palmeti, le donne velate, i turbanti, le spade ricurve; e si trovarono in un paese inospitale, con questi signori eleganti vestiti di bianco, i veri padroni dell’Africa, che li osservavano come alieni» (Montaldo).
ore 18.30 Il mercante di Venezia di Michael Radford (2004, 131′)
«Antonio, ricco mercante veneziano, ma con i capitali investiti in navi da carico ancora in viaggio, chiede all’ebreo Shylock un prestito di tremila ducati da dare al nobile Bassanio, affinché quest’ultimo possa corteggiare la ricca Porzia. L’usuraio però, da sempre maltrattato dal mercante, riesce a fargli sottoscrivere una bizzarra clausola: entro tre mesi, qualora la somma non venisse restituita, avrà in cambio una libbra di carne dal corpo del mercante, da tagliarsi vicino al cuore» (cinematografo.it). «Triste, vendicativo e solo, ecco il mercante ebreo di Al Pacino nel fastoso, classico ed educato film ripreso nei luoghi in cui Shakespeare l’ha pensato. Dando il massimo spazio alla parola, sicuro che la convivenza tra religioni e culture diverse sia tema attualissimo, Radford col suo spettacolone di teatro filmato manda nella bottiglia un messaggio: siamo e siete tutti disperati per soldi e per razza» (Porro).
ore 21.00 Incontro moderato da Steve Della Casa con Olga Bisera, Martine Brochard, Barbara Bouchet, Pippo Franco, George Hilton, Vassilli Karis, Dagmar Lassander, Malina Longo, Maurizio Mattioli, Isabel Russinova, Adriano Russo, Antonella Salvucci, Saverio Vallone
a seguire Gorbaciof di Stefano Incerti (2010, 85′)
«Marino Pacileo detto Gorbaciòf (così soprannominato a causa di una voglia sulla fronte, tanto simile a quella dell’ex presidente sovietico) è cassiere nel carcere di Poggioreale, ha il vizio del gioco ed è innamorato di una giovane cinese, Lila, immigrata illegalmente. L’uomo cercherà disperatamente una via d’uscita per sfuggire alla drammatica condizione esistenziale vissuta da entrambi» (cinematografo.it). «Stefano Incerti ha costruito il film sulla mimica di Toni Servillo, pesantemente truccato e a livelli di virtuosismo quasi disumani, e sui rumori di Napoli, che invadono la colonna sonora rendendo del tutto superflui i dialoghi. Ne esce un’opera insolita, che conferma Incerti come un regista originale e capace di cambiar pelle di film in film, e Servillo come un autentico fuoriclasse della recitazione sul quale, ormai, si costruiscono “a priori” i personaggi (prima che lui entrasse nel progetto, lo racconta Incerti, il copione era molto parlato e completamente diverso). Dopo l’affresco storico-calcistico di Complici del silenzio, questo Gorbaciof potrebbe sembrare un bozzetto, un quadretto naif. Invece è una scommessa stilistica audace e brillantemente vinta» (Crespi).