“Si chiude con una tavola rotonda, oggi, 11 marzo, nell’anniversario della catastrofe che ha devastato il Giappone, la rassegna “Νihon Εiga. Storia del cinema giapponese dal 1945 al 1969”
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domenica 11
ore 17.00
Ayako (1965)
Regia: Heinosuke Gosho; soggetto e sceneggiatura: Hideo Horie, dal romanzo Reiba no onna di Hajime Ogawa; fotografia: Sozaburo Shinomura; scenografia: Totetsu Hirakawa; musica: Yasushi Akutagawa; interpreti: Jitsuko Yoshimura, Terada Minoru, Keizo Kawasaki, Taiji Tonoyama, kin Sugai, Yoshio Yoshida, Eijiro Tono; origine: Giappone; produzione: Shochiku; durata: 98'
Ayako, figlia di pescatori poveri, è venduta a una casa di tolleranza. Conosce Kanjiro, timido e giovane studente di cui si innamora, ricambiata. Ma quando il ragazzo scopre che suo padre è uno dei più assidui frequentatori della casa e della sua ragazza, disgustato, si arruola nell'esercito e parte per il fronte. Heinosuke Gosho è un altro dei grandi nomi perduti del cinema giapponese: autore di quasi un centinaio di film (di cui più di quaranta diretti durante il periodo del muto) portati a termine in quarantatré anni di carriera, Gosho ha attraversato le diverse stagioni dell'industria della Settima Arte a Tokyo adattandosi di volta in volta alle necessità, senza smarrire però uno sguardo attento e partecipe sull'umanità. Ed è proprio sotto questo punto di vista che è possibile rintracciare l'importanza di Ayako, la sua quint'ultima regia: un afflato empatico e sanamente popolare anima il film, pedinando la triste vita della povera protagonista, schiacciata dal mondo che la circonda. Un film praticamente introvabile e da riscoprire, anche per rendere il doveroso omaggio a un regista di cui le giovani generazioni hanno perduto le tracce.
ore 18.45
Porci, geishe e marinai (1961)
Regia: Shohei Imamura; soggetto e sceneggiatura: Hisashi Yamanouchi, Shohei Imamura; fotografia: Shinsaku Himeda; scenografia: Kimihiko Nakamura; musica: Toshiro Mayuzumi; montaggio: Mutsuo Tanji; interpreti: Hiroyuki Nagato, Jitsuko Yoshimura, Yoko Minamida, Masao Mishima, Tetsuro Tanba, Shiro Osaka; origine: Giappone; produzione: Nikkatsu; durata: 108'
Nel porto di Yokosuka, città situata nella baia di Tokyo e dove vi è una grande base militare americana, una banda di yakuza cerca di trarre profitto dall'allevamento di maiali nutriti con i rifiuti della stessa base. L'elemento più giovane e ingenuo del gruppo è Kinta, che crede fermamente di poter fare dei soldi con questo bislacco affare, una convinzione supportata anche dalla reverenza e dalla fiducia che nutre nei confronti del suo capo, un gangster dall'aura di maudit romantico, ma continuamente alle prese con problemi intestinali. Haruko è la ragazza di Kinta, una barista che eviterebbe volentieri di seguire la via della perdizione (e della prostituzione) che ha intrapreso la sorella e prova a convincere Kinta a trasferirsi nella città industriale di Kawasaki, per lavorare in fabbrica. «Il quinto film di Imamura nasce sull'onda delle proteste del 1959 contro la temuta proroga del decennale Trattato di sicurezza nippo-americano che venne poi in effetti sostanzialmente confermato l'anno successivo, assicurando la permanenza in Giappone di basi militari statunitensi. Opera giovanile e "kurosawiana", come ammesso in seguito dallo stesso regista, Porci, geishe e marinai è il ritratto feroce e volutamente sopra le righe dell'abbrutimento dei giapponesi di fronte all'occupante americano. Lontano da ogni forma di accademismo, Imamura è in parte debitore dei noir alla Melville, ma più ancora sembra raccogliere la lezione de L'infernale Quinlan di Orson Welles, giocando per l'appunto sul grottesco e barocco contrappunto di bianchi e neri e sulla dialettica immediata degli opposti in un mondo ormai abbrutito dall'abiezione. Ma, al di là delle possibili filiazioni, è evidente la necessità dello sguardo e del racconto, l'urgenza di mettere in scena il proprio popolo e la vigorosa vis polemica di un regista la cui coerenza è data, nel corso della sua carriera, oltre che dal costante rigore dello stile, anche e soprattutto dal suo atteggiamento etico» (Alessandro Aniballi).
ore 20.45
Tavola rotonda su L'evoluzione dell'industria animata nel Giappone del dopoguerra con Oscar Cosulich e Luca Della Casa
a seguire
Acque torbide (1953)
Regia: Tadashi Imai; soggetto e sceneggiatura: Toshiro Ide, Yoko Mizuki, da tre racconti di Ichiyō Higuchi; fotografia: Shunichiro Nakao; scenografia: Totetsu Hirakawa; musica: Ikuma Dan; interpreti: Ken Mitsuda, Yatsuko Tan'ami, Akiko Tamura, Hiro Kumon, Hiroshi Akutagawa, Susumu Tatsuoka; origine: Giappone; produzione: Bungakuza, Shinseiki; durata: 130'
Storie diverse si inseguono in questo cupo spaccato della società. Nella prima una ragazza torna improvvisamente nel cuore della notte nella casa dei genitori in cui è cresciuta. Spiega loro che non può più vivere con suo marito, un uomo ricco per colpa del quale la sua famiglia si è indebitata. Dopo una lunga e dolorosa discussione, i genitori la convincono a tornare a casa. Sulla strada di casa l'uomo che guida il risciò si rivela essere un vecchio compagno di scuola e i due iniziano a ricordare i giorni andati. Nella seconda storia Mine è una cameriera nella casa di una donna anziana angariata da un figlio ozioso e perdigiorno, che assilla la madre e il suo nuovo marito con la richiesta di denaro in grado di coprire le sue ingenti perdite al gioco. L'unico parente ancora in vita di Mine è suo zio, che l'ha cresciuta e ora che è gravemente ammalato avrebbe bisogno di denaro per pagare uno strozzino. Mine promette di farsi prestare i soldi dalla sua datrice di lavoro ma, nonostante l'anziana donna inizialmente accetti, decide di rompere improvvisamente il patto con l'arrivo del nuovo anno. A Mine resta solo la possibilità di rubare i soldi da portare all'amato zio. Tadashi Imai, che con questo film fu accolto come nuovo grande autore del cinema giapponese al Festival di Cannes del 1954, prima di essere rapidamente dimenticato quand'era ancora in vita, delinea un progetto ambizioso: descrivere la condizione della donna giapponese durante la Restaurazione Meiji. Il risultato è un'opera complessa, stratificata, non sempre facile da interpretare e adagiata su un ritmo contemplativo che non fa altro che acuire il senso di disgusto nei confronti delle vessazioni cui le protagoniste del film devono andare incontro.
Copia proveniente dall'Istituto Giapponese di Cultura - Ingresso gratuito
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